“La terapia educazionale”. Una nuova frontiera nella diagnosi del “prenatale”

Giuseppe Noia [1]


La diagnosi prenatale (DP) implica molto di più di quanto non sia suggerito dal termine stesso. Questo, infatti, per i non addetti ai lavori, non lascia trasparire immediatamente le problematiche di carattere etico-morale suscitate, che invece sono insite in essa. Si deve tener presente che parlare di DP significa affrontare, con i nostri interlocutori - madre o coppia- un argomento che ha implicazioni che vanno ben oltre la sfera puramente medica, tecnica e scientifica e che toccano il vissuto genitoriale nel profondo.
Le tecniche di DP, come sanno gli ostetrici, sono fondamentalmente di due tipi, una per immagini (non invasiva) e l'altra (invasiva) con prelievo di “materiale embrio – fetale” (con ciò si intende il sangue fetale del cordone ombelicale e il liquido della cavità amniotica). Entrambi i tipi permettono per la prima volta ai futuri genitori di entrare in contatto con il loro bambino “il frutto del loro concepimento, con il sangue del loro sangue”, sia attraverso le immagini nel caso dell'ecografia sia attraverso la visione e la tangibilità del corporeo del loro bambino attraverso il prelievo di “materiale embrio-fetale”[2]. Ciò assume una forte valenza in termini psicologici sia per la conferma o la disconferma delle rappresentazioni mentali “fantasmatiche” che del bambino si sono fatti i futuri genitori, che si scontrano con la realtà delle immagini evocate dal monitor, sia per la possibile scoperta di una qualche malformazione visibile non solo più all'ecografista ma anche ai genitori in maniera immediata e diretta[3].
Come comportarsi dinanzi ad una diagnosi di malformazione fetale? Come accogliere il dolore dei genitori dinanzi ad una notizia così nefasta per la loro esperienza genitoriale? Spesso di fronte ad una tale visione la domanda che più ricorre è: «Dottore, lei cosa mi consiglia?». Fino a non molti anni fa rispondere a questa domanda comportava per il ginecologo difficoltà di carattere esclusivamente tecnico–scientifico; era perciò necessaria (e sufficiente) la conoscenza della scienza medica. Lo specialista si limitava a fare una corretta diagnosi e a suggerire un'appropriata terapia. La situazione ora è profondamente cambiata, non soltanto per il notevole sviluppo di nuove tecnologie e quindi per le migliori e maggiori possibilità diagnostiche e terapeutiche che la scienza ci ha messo a disposizione, ma anche per il mutato rapporto medico-paziente. Nel Codice Civile italiano si afferma che «nell'adempiere il suo compito, il debitore (nel nostro caso il medico) deve usare la diligenza del buon padre di famiglia» (artt.1176 e 2236).
Questo concetto è stato, fino a pochi anni fa, alla base del rapporto medico-paziente. Il paziente si affidava al medico per i suoi problemi di salute e questo, come un buon padre di famiglia, per risolverli prendeva la decisione che riteneva più giusta. Oggi tutto è cambiato, grazie al cosiddetto consenso informato (che presuppone che il paziente o la paziente sia messo in grado di decidere autonomamente se accettare o no il suggerimento del medico o scegliere, ove possibile, tra due o più opzioni prospettate, naturalmente dopo esserne stata adeguatamente informata). Perché questa breve digressione di natura medico-giuridica? Perché il consenso informato assume una forte valenza nella DP, sia dal punto di vista scientifico, nello specificare i potenziali rischi connessi alle tecniche invasive (abortività, parto prematuro ecc.), ma anche per la valenza etica e psicologica, dal momento che da una DP (con prognosi infausta per il feto o con diagnosi di malformazione) può dipendere la decisione della paziente di abortire. In ogni caso la donna o la coppia andranno sicuramente incontro a un gravissimo stress psicologico che il medico deve essere preparato a gestire.
Dinanzi ad una malformazione fetale, i genitori si troveranno nella possibilità di fare la dolorosa scelta tra l'interruzione della gravidanza o la sua continuazione. Essi cercano allora di trovare le origini e le cause di queste malformazioni, pensano alle cause ereditarie, a come sono stati abituati a considerare le imperfezioni fisiche e mentali, cosa che provoca in loro confusione ed inquietudine, come pure sensi di colpa e di vergogna, persino reazioni di ripugnanza e rifiuto. A differenza degli aborti dovuti a cause psicosociali, gli aborti per malformazione in gravidanza (AMG) mettono termine a gravidanze che sono desiderate e che sono state precedute da un periodo di angoscia in occasione degli esami prenatali.
Per esemplificare al massimo tutto ciò riportiamo un caso giunto a noi in consulenza presso il Day Hospital (DH) di Ostetricia e Ginecologia. La signora C. giunge alla nostra struttura per effettuare una cistocentesi (metodica invasiva ecoguidata che mira a prelevare urina fetale a scopo diagnostico e terapeutico, previa anestesia cutanea ecoguidata al feto). Dopo averla effettuata, le viene riferito che, nonostante si intervenga, non si esclude la possibilità che il bambino possa non farcela. A questo punto la sig.ra C. scoppia in lacrime, raccontando quanto avesse investito in quel bambino, i viaggi con il marito verso il più vicino centro specializzato per rimanere incinta, i vestitini che aveva già acquistato, le fiabe che gli leggeva la sera come se il bimbo le stesse accanto: addirittura aveva fatto dei progetti a quando ella sarebbe diventata la nonna dei suoi figli.
Tutto questo per meglio chiarire come la diagnosi di feto-bambino malformato colpisca la donna e la progettualità della coppia e come la decisione di un aborto volontario distrugga completamente tale progettualità, oltre che la vita del figlio[4]. Qualunque sia la condizione malformativa, l'oggettività di essere figlio nessuno può cancellarla né tantomeno la scelta abortiva. Anzi è da essa che derivano molti rischi di lutto complicato da pesanti conseguenze psicologiche. Per questo tipo di perdita perinatale, la risoluzione del lutto è complicata da una perdita della stima biologica di se stessi. Infatti, la procreazione di un bambino malformato è sempre vista come un fallimento nella procreazione. La vergogna, il sentimento di aver fallito che ne derivano alimentano spesso sentimenti d'inferiorità. Si manifesta anche una perdita morale di se stessi, perché c'è stato un confronto con il senso morale dei genitori durante la decisione sulla preservazione o soppressione della vita.
La decisione di interrompere la gravidanza ha spesso interferito nell'idea che la persona aveva fino ad allora del bene e del male. I sentimenti di vergogna e di responsabilità si trovano del resto in molte madri[5]. Nei genitori è presente pure una perdita della stima sociale di se stessi. Infatti, molte coppie si ritrovano socialmente isolate, sia che esse decidano di portare avanti la gravidanza e far nascere comunque il loro bambino anche se “terminale”(feto la cui esistenza è incompatibile con la vita), sia che scelgano per l'aborto volontario. Questo isolamento è accentuato dal fatto che il lutto è complicato da problemi di ereditarietà, su base genetica e dalla presenza delle anomalie congenite. Con l'aborto la madre si situa in un contesto particolarmente morboso, poiché l'utero è come se si trasformasse in una bara ed ella si trova a confrontarsi con una violenta ambivalenza tra la vita e la morte, non solo quella del suo feto, ma anche la propria. Valenze psicodinamiche più forti possono derivare dal fatto che potrà nascere qualcuno considerato “mostruoso” o uno “scherzo della natura” per alcuni media, mentre per queste coppie è semplicemente il loro “frutto”, il loro figlio.
Tali situazioni tendono ad allontanare chi sta intorno per paura che qualcosa di simile (una “disgrazia” così) possa capitare a loro: «e se capitasse per davvero a noi, come ci si comporterebbe?». Si sa che superare il lutto diventa più difficile se l'avvenimento e le sue conseguenze non sono condivisi con chi sta vicino alla coppia. La nascita di un bambino nato morto o che muore subito dopo la nascita diventa anche un non avvenimento, fonte di confusione totale nell'animo della madre e di riflesso del marito o compagno. Ricordando il sonetto di Ugo Foscolo A Zacinto -«Tu…non altro che il canto avrai del figlio…o materna mia terra; a noi prescrisse il fato illacrimata sepoltura….!»-, si rileva, anche attraverso una interpretazione poetica, l'importanza di avere una tomba su cui piangere, proprio ai fini della elaborazione della perdita di qualcuno a noi caro, in quanto attraverso la tomba si materializzerebbe l'assenza. Da sempre l'essere umano ha bisogno di una materializzazione, “la sepoltura” e “la tomba”, per piangere la scomparsa di un caro estinto: ecco perché nella storia umana i resti mortali di un essere umano hanno trovato diritto ad una degna sepoltura. Riconoscere la dignità di quella esistenza come individuo umano relazionato affettivamente con altri individui umani fa scaturire il diritto alla degna sepoltura.
Se si considera individuo con un suo status il “feto malformato”, allora egli avrà diritto ad una nascita ed a una sepoltura, in quanto il diritto ontologico umano ne riconosce la dignità. Scopo quindi della “Terapia Educazionale” diviene quello di unire il sapere medico alla visione morale, etica e psicologica della vita attraverso la presa in carico e l'accoglienza della coppia genitoriale[6].
Gli aspetti finora esposti riguardanti la diagnosi prenatale, il counseling e la terapia educazionale possono essere descritti in maniera migliore dall'esperienza del nostro DH.
In particolare la nostra attenzione si è rivolta verso una serie di 31 pazienti (30 gravidanze singole e 1 gemellare, per un totale di 32 figli) alle quali era stata fatta la diagnosi di terminalità.
Secondo criteri che comprendono l'eziopatogenesi, le possibilità terapeutiche e l'approccio medico tipico di una medicina condivisa con la coppia, abbiamo schematizzato due grandi forme di terminalità:
(a) il feto intrinsecamente terminale, per il quale l'accompagnamento diventa presidio insostituibile non solo per accogliere queste condizioni fetali estremamente patologiche, ma anche per affrontare il momento del distacco post-natale e l'elaborazione del lutto nei mesi successivi. Una dimostrazione è data dal fatto, che nell'anno successivo alla perdita, 9 pazienti su un gruppo ristretto di 18 (50%) hanno scelto di affrontare una nuova gravidanza. Questo gruppo è rappresentato da pazienti che avevano avuto feti con anomalie congenite (cromosomiche e strutturali) incompatibili con la vita, cioè non viabili, come le triploidie, le trisomie 13 e 18, alcune forme di displasie scheletriche, le anencefalie e le acranie, gli stati anasarcatici avanzati e irreversibili, il gemello “perfuso” nella TRAP Sequence, le agenesie renali e le displasie renali bilaterali precoci.
(b) Il feto non intrinsecamente terminale, ma reso tale da induttori psico-sociali e fortemente condizionati da culture antropologicamente non fondate. È il caso della terminalità indotta dal consenso giuridico-sociale, dalla manipolazione culturale, dall'ignoranza e dalla medicina difensiva, e infine dall'accidia intellettuale. In questo secondo gruppo possiamo includere le gravi anemie fetali da iso-immunizzazione Rh, le idropi fetali non immuni, le uropatie ostruttive gravi con megavescica, le rotture intempestive delle membrane del II trimestre, i difetti del tubo neurale come la spina bifida, le emoglobinopatie e le forme di tachiaritmia fetale gravi, passibili di cardioversione con farmaci antiaritmici anche attraverso la somministrazione materna-transplacentare, le malattie infettive, la ventricolomegalia isolata e i “soft markers” di cromosomopatia. Infine vi includiamo anche tutti quegli aborti di quegli embrioni perduti con le tecniche di fecondazione extracorporea e quelli perduti nei processi di scongelamento e di diagnosi preimpianto contigui temporalmente alla FIVET[7].
Le patologie riscontrate nel nostro gruppo ricoprono buona parte della classificazione qui esposta. La tabella sintetica è suddivisa in due sezioni; nella prima parte vengono esposti i casi in cui i feti sono giunti all'exitus perinatalmente con l'epoca del decesso; nella seconda parte vengono esposti i casi di bimbi tuttora viventi con le problematiche residue.
Con “diagnosi” si intende il momento in cui è stata fatta una diagnosi certa, sebbene tutti siano passati attraverso un percorso più o meno travagliato a seconda dei casi. Viene inoltre indicato il tipo di parto: parto vaginale (PV), spontaneo o indotto, o taglio cesareo (TC). Nei casi in cui è stato studiato il cariotipo, viene indicato se eseguito pre o postnatalmente. Di tutte queste pazienti è stata raccolta la storia familiare e ostetrica, in particolar modo riguardo alla gravidanza in questione; tutto ciò tramite le cartelle cliniche ed i colloqui con le pazienti.
L'approccio alle pazienti coinvolte in questa esperienza pone le proprie basi sulla considerazione dell'embrione come persona, fondata sugli aspetti scientifici del cosiddetto “protagonismo biologico” dell'embrione, della sua relazionalità psico-dinamica e biologica con la madre, e della possibilità di curarlo come un paziente a tutti gli effetti, essendo dotato di un'incredibile “compliance terapeutica”. Secondo questi criteri proponiamo un management delle gravidanze con feti “considerati terminali” basato sia sulla specificità di trattamento attuato per ogni “feto patologico”, sia sul cammino empatico con le coppie cui viene diagnosticata la condizione di terminalità e che accettano di accompagnare il figlio fino all'exitus naturale[8],[9].
La proposta fatta alla coppia nasce da tre evidenze già accennate precedentemente, ma che, data l'importanza, vogliamo ripetere in maniera sintetica:
1. La “sindrome del feto perfetto”: stiamo parlando di un atteggiamento diffuso nella cultura odierna che amplifica il contrasto tra desiderio della coppia di avere un figlio sano e il terrore che non lo possa essere; questo porta ad una sempre maggiore medicalizzazione del processo di fecondazione e della gravidanza, diventando un chiaro esempio di medicina selettiva. Tale sindrome, infatti, respirata a pieni polmoni dall'attuale cultura eugenetica, vede nella malformazione del feto solo una fonte di sofferenze future (quasi mai esattamente quantificabili ma sempre più amplificate in spessore di disperazione e solitudine), vede quindi una vita “sbagliata”, una minaccia per la coppia, la famiglia e la società. Essa quindi entra nel tunnel di un iter compulsivo di tecniche diagnostiche, invasive e non invasive, che accentua l'ansia e dall'ansia si prepara il rifiuto. Si assiste, cioè, a una giustificazione sociale di tipo eugenetico e selettivo, nella falsa idea di poter eliminare la sofferenza eliminando il sofferente.
2. La falsità del criterio della “proporzionalità traumatica”, il quale dichiara che più piccolo è l'embrione, più sicuro e più accettabile è l'aborto, minori sono le conseguenze per la donna; ciò spinge la donna ad affrettare sempre di più la diagnosi prenatale per anticipare il più possibile l'interruzione di gravidanza;
3. La “sindrome post-abortiva”: è una patologia che coinvolge la donna (ma, seppur indirettamente, anche il partner) la quale si trova ad affrontare (a volte anche inconsciamente) il dolore di aver inflitto la morte al proprio figlio e la grande difficoltà di elaborarne il lutto. Ovviamente è una patologia pressoché sconosciuta in campo abortista, proprio per il fatto che la donna viene costantemente lasciata a sé, sia nel processo decisionale sia dopo l'interruzione.
Secondo questi criteri, di fronte alle gravidanze cosiddette “terminali”, ogni soggetto del rapporto medico-pazienti (coppie e feto) acquista nuovamente e maggiormente la propria dignità[10].
Il medico per primo recupera il valore profondo non solo del curare il paziente, ma dell'accompagnarlo fino alla morte, riconoscendo al feto la qualità di paziente a tutti gli effetti. Questo è un chiaro esempio di cosa comprenda la professione medica per due motivazioni:
1. Quando è possibile ci spinge ad intervenire secondo modalità convalidate dai dati del nostro centro, effettuando una terapia rigorosamente guidata da criteri scientifici;
2. Quando ciò non è attuabile, il medico accompagna la famiglia nel passaggio dal To Cure, al To Relieve, fino al To Care, quando ciò è l'unica forma di approccio medico possibile.
La coppia stessa riacquisisce la propria genitorialità, accogliendo la vita nascente come figlio; ciò si pone a tutti gli effetti come un atto terapeutico, con tutti i benefici che la coppia ne trae durante e dopo la gravidanza. Infatti, la “riscoperta” di questo rapporto naturale è alla base di tutto il vissuto che, come dichiarano le coppie stesse, sarà sempre “con dolore, ma mai con disperazione”.
In conclusione, il concetto di feto terminale è semanticamente e ontologicamente identico alla realtà del figlio terminale: la relazione medico-paziente diventa insostituibile per ridare capacità gestazionale a quelle donne che, con amore straordinario, accolgono la vita fragile.


Note

[1] L'articolo è stato scritto in collaborazione con: Anna Maria Serio, psicologa, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma; Francesca Malatacca, psicoterapeuta; Marco D'Errico, medico frequentatore, Dipartimento per la Tutela della Salute della Donna e della Vita Nascente, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma; Mauro Tintoni, medico specializzando, Dipartimento per la Tutela della Salute della Donna e della Vita Nascente, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma; Ilenia Mappa, medico specializzando, Dipartimento per la Tutela della Salute della Donna e della Vita Nascente, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma; Giuseppe Fortunato, medico specializzando, Dipartimento per la Tutela della Salute della Donna e della Vita Nascente, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma.
[2] J. Green, H. Stratham: «Psychosocial aspects of prenatal screening and diagnosis» in T. Marteau, M. Richards, The Troubled Helix: Social and Psychological Implications of the New Human Genetics. Cambridge University Press, England 1996, 140-163.
[3] M. Ammaniti, C. Candelori, M. Pola, R. Tambelli, Maternità e gravidanza, Raffaello Cortina, Milano 1995.
[4] T. Marteau, J. Slack, «Psychological implications of prenatal diagnosis for patients an health professionals», in D. Brock, C. Rodeck, M. Ferguson-Smith, Prenatal Diagnosis and Screening, Churchill Livingstone, London, England 1992, 663-673.
[5] G. Noia, S. Pietrangeli Paluzzi, Il figlio terminale. Risposte di amore straordinario all'ordinaria eutanasia prenatale, Nova Millennium Romae, Roma 2007.
[6] G. Noia et al., «L'uso del counselling nella diagnosi prenatale», dagli atti del convegno Il feto come paziente: dove comincia l'amore, Associazione Italiana Divina Misericordia, Corato (BA), 15 ottobre 2004.
[7] L. B. McCollough, «Ethics in obstetric and gynecology: an overview», in Europeran Journal of Obstetric and Gynecology and Reproductive Biology 75 (1997), 91-94.
[8] G. Noia et al., «Il feto come paziente: quanti modi di curarlo nel grembo materno», dagli atti del convegno Il feto come paziente: dove comincia l'amore, Associazione Italiana Divina Misericordia, Corato (BA), 15 ottobre 2004.
[9] J. Boue, F. Muller, B. Simon-Bouy et al, «Consequences of prenatal diagnosis of cystic fibrosis on the reproductive attitudes of parents of affected children», in Prenat Diagn 11(1991), 209-214.
[10] J. C. Fletcher et al., «Ethics and human genetics: a cross cultural study in 17 nations», in F. Vogel, K. Sperling, Human genetics. Proceedings of the 7th International Congress, Berlin 1986, Springer, Berlin Heidelberg New York 1987, 657-672.