Parole alterate: il vocabolario del relativismo etico

Carlo Valerio Bellieni


Esistono parole che usiamo correntemente, il cui significato è stato stravolto nel tempo. Vorremmo richiamare qui la realtà di alcune di queste parole, spiegando come siano state artatamente distorte e come recuperarne il significato.
L'epoca neonatale e prenatale sono i primi campi di battaglia in questo senso e di qui prende piede la nostra osservazione.

Feto e embrione: due parole da non usare o da usare criticamente

La parola “feto” dovrebbe essere bandita dall'uso comune. Nell'epoca delle ecografie a quattro dimensioni e degli studi comportamentali, sappiamo benissimo che non esiste differenza sostanziale tra il bambino prima della nascita e dopo il parto. Già: allora perché usare due termini diversi per parlare della stessa cosa? Eppure lo chiamiamo “feto” [1] un minuto prima e “bambino” un minuto dopo. Cosa è cambiato? Sul piano fisico assolutamente nulla. Si è chiuso (e non sempre) un canale tra aorta e arteria polmonare e poco più. È arrivata la luce agli occhi (ma già arrivava attraverso la parete sottile del pancione) ed è entrata l'aria nei polmoni. Non ci sembrano cambiamenti sostanziali: anche prima di nascere il “feto”, si succhiava il pollice[2], poteva sentire il dolore, aveva memoria, sentiva le voci, gli/le batteva il cuore. Certo: ora l'ossigeno arriva dall'aria e non dal cordone ombelicale... ma non sono le differenze strutturali che determinano le differenze ontologiche.
Questa distinzione surrettizia è recente. Il termine “feto” deriva da una radice indoeuropea che significa “succhiare”[3],e la parola fetus in epoca romana significava esattamente “frutto” oppure “progenie”[4] (nec ulla aetate uberior oratorum fetus fuit[5], scriveva Cicerone e Catullo indicava come “dulces musarum fetus”[6] i figli delle muse, cioè le poesie). Insomma, i Romani non avevano un termine per indicare il bambino nascituro... perché sapevano bene che era un puer.
Questa coscienza della continuità della vita proseguì nel tempo e appare chiara anche dai famosi disegni di Leonardo da Vinci che mostrano il bambino prenatale, e ne illustrano la sostanziale e inequivocabile umanità, in cui il bimbo veniva chiamato non feto, ma “putto”.
Eppure ad un certo punto della storia, si è verificata questa cesura, che ha un peso che va ben oltre lo scopo “descrittivo”: qualcuno ha voluto usare un termine che fino ad allora era un sinonimo di “figlio” (“feto”, appunto) per indicare qualcosa che, nella sua idea, figlio non è ancora. I termini “bambino”, “adolescente”, “anziano”, “adulto” descrivono gli stadi di sviluppo di qualcuno che tutti riconosciamo come “persona”; invece il termine “feto” serve a denotare un minor livello di diritti. Sottolinea questa spersonalizzazione del termine il fatto che in italiano e in spagnolo il termine “feto” non abbia un corrispettivo femminile: è una forma “neutra”, che come tale non ha la caratterizzazione sessuale che è la principale caratteristica della persona. Addirittura foetus in inglese e francese si ritrova appiccicato addosso un dittongo che il termine latino fetus non aveva: è una “iperlatinizzazione”, che riesce a reificare l'oggetto, come se si trattasse di materiale da esperimento[7]. Il termine fawn in inglese significa “cucciolo”, ovvero “cerbiatto”, e deriva proprio dalla parola fetus (attraverso una sua deriva del termine tardo-latino feto-fetonis di ugual significato)[8]. D'altronde anche il termine “embrione” dovrebbe veder riparata la stessa ingiustizia, dato che più che una parola è una specie di aggettivo che vuol dire “che fiorisce dentro” (en- br?ein), il cui soggetto, evidentemente è “il bambino”[9].
Ma perché dobbiamo usare per il bambino prenatale un termine stigmatizzante e dirottato dal suo significato originario? Lo capiamo bene, dato che spesso tutti noi usiamo termini stigmatizzanti per indicare che qualcuno che a noi non piace, “non è dei nostri”. E su questa linea di confine si basa il criterio “moderno” che il cosiddetto feto “valga un po' meno di noi”.

Salute e benessere: termini ambigui

La legge sull'interruzione di gravidanza è basata sulla salvaguardia della salute della donna: si può eseguire un aborto solo se si ravvede che la prosecuzione della gravidanza nuocerà alla sua salute. Ma cos'è la salute? L'OMS nel 1948 stese una definizione molto criticata, che però è ancora in auge: «Lo stato di completo benessere psichico, fisico, sociale»[10]. Questo implica due paradossi: il primo è che nessuno possiede salute; il secondo è che, dato che la salute è un mio diritto (si dice) e io non l'avrò mai per definizione, resterò per sempre con un diritto costituzionale insoddisfatto, con conseguente stato di frustrazione generale[11].
Ma pensiamo a cosa sia la salute davvero e per farlo pensiamo a quando sentiamo di non averla: questo succede in due casi molto semplici: quando sentiamo di non riuscire a fare una cosa che i nostri pari-grado (per età, sesso…) fanno, o quando non riusciamo a fare una cosa che riuscivamo a fare bene. Non sempre la presenza di una malattia non ci fa sentire in salute: pensate per esempio a un non vedente che ottiene la laurea o cui la mamma dà un bacio o che ottiene un successo. Insomma: la salute ha alla base il concetto di desiderio. E il desiderio che, insoddisfatto, porterà a non farci sentire in salute è quello commensurato al nostro stato: non ci sentiremo non in salute se non riusciamo a fare i 100 metri in 10 secondi o se non riusciamo a nuotare se tocchiamo l'acqua per la prima volta; oppure se abbiamo 5 anni e non conosciamo le tabelline o se ne abbiamo 90 e perdiamo i capelli. Dunque capiamo cosa è la salute: la possibilità che i nostri desideri commensurati alle nostre possibilità si realizzino. Allora il contrario della parola salute non è la parola malattia, ma è esattamente la perdita del desiderio, la disperazione. In fondo, anche in inglese la parola salute (health) viene dal termine whole[12], cioè “integrale”, “intero”, che fa riferimento ad un compimento di sé, come la persona lo percepisce, piuttosto che ad una carenza dovuta ad una malattia.
Capiamo altresì come sia stata manipolata la parola “benessere”, che è alla base della succitata “salute”: oggi concepiamo il benessere come avere un eccesso di possibilità o di cose. Nella mentalità comune il benessere di una persona si esprime non con la sua capacità di usare e godere di una cosa, ma con la possibilità di avere delle cose di cui può fare a meno, di cui può non godere (basti pensare a quanti posseggono abitazioni, generi di vestiario, oggetti vari di cui usano solo una minima parte). Insomma, identifichiamo il benessere con il non-godimento invece che con il godimento dell'oggetto. Credo invece, vista la definizione di salute che abbiamo dato in precedenza, che la parola benessere debba intendersi in modo più semplice come la “coscienza di godere di salute”, ovvero la coscienza che i nostri desideri sono sulla strada della realizzazione.

Accanimento terapeutico… o accanimento diagnostico?

La dice lunga sul tema il fatto che il termine “accanimento terapeutico” non sia traducibile in inglese, cioè nella lingua ufficiale della medicina; e se lì non c'è, vuol dire che nei paesi latini, dove invece è un'espressione in auge, stiamo usando qualcosa che è al limite del parascientifico. Infatti, i testi inglesi distinguono solo (correttamente) tra trattamento futile o utile[13]. Ed è una distinzione corretta, dato che il primo è da proscrivere se fastidioso per il paziente, mentre il secondo è obbligatorio, tranne che non abbia effetti collaterali disturbanti. Parlare invece di “accanimento terapeutico” implica che ci siano dei medici che esagerano nelle terapie per scopi personali o quantomeno discutibili. Mentre sappiamo quanto un'esagerazione sia presente in caso di accertamenti diagnostici, vista l'imperante medicina difensivistica che porta ad una moltiplicazione di esami clinici invasivi e non, al fine di proteggersi da conseguenze legali, la possibilità che ci si accanisca a far vivere un malato è limitata a pochi casi estremi. Sembra piuttosto che si debba temere l'abbandono terapeutico, in una visione del termine “futile” come equivalente alla prosecuzione della vita di un soggetto con grave disabilità[14]. In realtà esistono degli studi che mostrano come molti medici -soprattutto delle prime fasi della vita- considerino la vita con grave disabilità fisica o con grave disabilità psichica peggiore della morte: cosa inquietante, perché questo non corrisponde al vissuto di tantissime persone disabili. Si rischia dunque di passare dall'idea di “terapia futile” a quella di “vita futile”, quando segnata dalla malattia grave.

Considerazioni conclusive dall'esame di questi termini

Si potrebbe continuare l'elenco, riportando come parole quali “persona”, “dolore”, “sofferenza”, siano state stravolte e non mancherà occasione prossimamente. Dobbiamo farci carico di una seria campagna di corretto uso del linguaggio, in modo da non essere soggetti nella vita quotidiana ad un pensiero che tramite Tv e media influenza il nostro linguaggio senza che ce ne accorgiamo. Traiamo per ora, al fine di rafforzare la decisione di un uso corretto delle parole, almeno tre conclusioni, lasciando poi il lavoro alla libertà quotidiana di ciascuno di noi.
1. Il riferimento alla salute della donna per giustificare l'aborto è quantomeno improprio, altrimenti dovremmo giustificare qualunque evento, trasgressivo o no, se chi lo compie adduce di averlo fatto per salvaguardare la propria salute. Ovviamente questo non significa che tutte le gravidanze siano serene, anzi, ce ne sono molte travagliate e difficili, vissute con fatica: compito della società è di facilitare in tutti i modi (dal punto di vista sociale, economico, culturale, educativo) la tutela della gravidanza e il rispetto della donna, ma non è nell'interesse della donna stessa la fuga verso scorciatoie che solo in apparenza risolvono il problema.
2. Trattare il bambino non ancora nato in modo diverso da quello già nato lascia perplessi, perché solo un cavillo semantico può far credere che esista una differenza sostanziale – e dunque di diritti – tra bambino nato e non ancora nato.
3. L'accanimento terapeutico è un danno per il paziente, essendo un trattamento futile e talora oneroso. Ma ricordiamoci che non è futile la vita del bambino o dell'adulto con malattia anche grave. Possono esistere dei trattamenti futili, ma non delle vite futili.


Note

[1] J.L. Hopson, «Fetal Psychology», in. Psychology Today 31/5 (1998),44, 6p, 4c.
 D.S.Levy; P. Zielinsky; A.M. Aramayo; I. Behele; N. Stein; L. Dewes, «Repeatability of the sonographic assessment of fetal sucking and swallowing movements», in Ultrasound in Obstetrics & Gynecology, 26/7 (2005), 745-749. 
[2] M. Cortellazzo, M.A. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, Zanichelli ed., Bologna 1999, 556.
[3] The Concise Oxford Dictionary of English Etymology 1996, originally published by Oxford University Press 1996.
[4] Cicero: Brutus, Orator; Volume V (Loeb Classical Library No. 342) (Hardcover).
[5] C. Valerius Catullus, Carmen LXV. Ad Hortalum.
[6] «from L. fetus “the bearing, bringing forth, or hatching of young,” from L. base *fe- “to generate, bear,” also “to suck, suckle” (see fecund). In L., this was sometimes transferred figuratively to the newborn creature itself, or used in a sense of “offspring, brood” (cf. “Germania quos horrida parturit fetus,” Horace), but this was not the basic meaning. Also used of plants, in the sense of “fruit, produce, shoot.” The adj. fetal was formed in Eng. 1811. The spelling foetus is sometimes attempted as a learned Latinism, but it is not historic», in The American Heritage® Dictionary of the English Language, Fourth Edition Copyright © 2006 by Houghton Mifflin Company. Published by Houghton Mifflin Company.
[7] «from O.Fr. faon “young animal,” from V.L. *fetonem, acc. of *feto, from L. fetus “an offspring” (see fetus). Still used of the young of any animal in K.J.V., but mainly of deer from 15c», in The American Heritage® Dictionary of the English Language, Fourth Edition Copyright © 2006 by Houghton Mifflin Company. Published by Houghton Mifflin Company.
[8] «from M.L. embryo, from Gk. embryon, in Homer, “young animal,” later, “fruit of the womb,” lit. “that which grows,” from en- “in” + bryein “to swell, be full”», in The American Heritage® Dictionary of the English Language, Fourth Edition Copyright © 2006 by Houghton Mifflin Company. Published by Houghton Mifflin Company. Cfr anche: M. Cortellazzo, M.A. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, Zanichelli ed., Bologna 1999, 516.
[9] WHO, «Preamble of the Constitution of the World Health Organisation as adopted by the International Health Conference», in Official Records of the WHO, No.2 (1948), 100.
[10] D. Callahan, «The WHO definition of health», in T. Beauchamp – L. Walters (Eds.), Contemporary Issues in Bioethics, Wadsworth Publishing Company, Belmont (California) 1978, 90-95.
[11] «Health: wholeness, a being whole, sound or well,” from PIE *kailo- “whole, uninjured, of good omen” (cf. O.E. hal “hale, whole;” O.N. heill “healthy;” O.E. halig, O.N. helge “holy, sacred;” O.E. hælan “to heal”). Healthy is first attested 1552», in The American Heritage® Dictionary of the English Language, Fourth Edition Copyright © 2006 by Houghton Mifflin Company. Published by Houghton Mifflin Company.
[12] J.K. Davis, «Futility, conscientious refusal, and who gets to decide», in J Med Philos. 33/4 (2008), 356-73
[13 ]K. Amaraskekara, M. Bagaric, «Moving from voluntary euthanasia to non-voluntary euthanasia: equality and compassion», in Ratio Juris, 17/3 (2004), 398-423.