L'aborto oggi dopo trent'anni dall'avvio della legge 194
Gian Carlo Blangiardo
A distanza di tre decenni dall'avvio della legge 194 che ha introdotto in Italia la pratica legale dell'interruzione volontaria della gravidanza (IVG), si impone, dopo tanti animati discorsi, una oggettiva valutazione a suon di numeri.
Non è che sino ad ora siano mancate le analisi di tipo quantitativo sulla dinamica del fenomeno o che non vi sia chi abbia fatto ricorso ai dati statistici per argomentare le proprie tesi ed alimentare il dibattito. Resta però innegabile che da tempo è in atto una massiccia azione di accreditamento di un clima culturale che, anche con i numeri (o anche grazie a certi numeri), vuole farci partecipi di una filosofia di fondo incentrata sul: «tranquilli, il problema è del tutto sotto controllo».
Ecco, questo è l'atteggiamento ufficiale che sistematicamente si è cercato di avallare da parte di coloro che sanno cosa è bene per tutti noi e che vogliono convincerci, con argomentazioni scientifiche o pseudo scientifiche, che quanto sta accadendo sul fronte dell'interruzione volontaria di gravidanza è un buon segnale. Vogliono dirci che la legge 194 è una buona legge, una saggia legge.
Sentiremo tra poco le confortanti parole con le quali viene ufficialmente etichettata la 194. Allo stesso tempo vedremo se, da una corretta lettura ed interpretazione dei numeri senza tesi precostituite e senza fare lo slalom tra i dati alla ricerca del percorso più comodo per sostenerle l'idea che «tutto procede nel migliore dei modi» sia un'affermazione ancora in grado di reggere o, viceversa, non sia che un messaggio di falsa propaganda al solo scopo di impedire qualsiasi iniziativa di revisione della legge.
Può essere utile prendere il via da un recente fatto di cronaca: la notizia di tre orsetti uccisi in un grande parco del nostro paese. Se è vero che è un segno di sensibilità e di civiltà il comune dispiacere per la sorte dei poveri orsetti, ci si chiede tuttavia per quale motivo tre orsi uccisi dovrebbero commuoverci più di oltre centomila aborti l'anno. E avendo constatato che purtroppo così stanno le cose, non si può che leggerle come un amaro segnale della perdita del più elementare senso dei valori.
La reazione indignata all'uccisione degli orsi si è sviluppata mentre, in occasione dell'annuale rapporto al parlamento sulla legge 194 con il suo bilancio di 130mila interruzioni volontarie di gravidanza, si è affermato pubblicamente che «La legge è stata e continua ad essere non solo efficace, ma saggia e lungimirante. Profondamente rispettosa dei principi etici della tutela della salute della donna e della responsabilità femminile rispetto alla procreazione, dei valori sociali della maternità e del valore della vita umana dal suo inizio».
Queste sono le parole del ministro tratte dal resoconto sulla applicazione della 194. I dati che qualificano questa legge «saggia e lungimirante» con il «più ampio rispetto per il valore della vita», segnalano che dalla metà del '78 al 2006 si è impedita la nascita ma con saggezza e lungimiranza di quasi cinque milioni di bambini. Via via vengono delineate le successive tappe: il primo milione raggiunto nel 1982, il secondo nel 1988, il terzo nel 1994, il quarto nel 2002 e così via verso la prossima meta: il quinto milione. Ma sempre nel segno di una legge saggia, lungimirante e rispettosa della vita e con il conforto: «tranquilli, il problema è del tutto sotto controllo».
In fondo, si dice nelle comunicazioni ufficiali, siamo partiti nel 1978 con una crescita rapida sino a 200mila e a circa 250mila casi nei primi anni '80; poi la gente si è data una regolata; e alla fine siamo arrivati a malapena 150mila casi annui. Anzi, meno di 150mila, ed è ormai da un po' di tempo che si va in questa direzione. Esiste un aspetto, come dire, fisiologico del problema. Però possiamo affermare che oggi sono solo pochi gli aborti in Italia. Il fenomeno è sotto controllo; la popolazione sta imparando; la contraccezione efficace funziona, e così via.
Questo è dunque il messaggio che ci danno e che deve passare nella cultura del nostro tempo. E per sostenere la validità della tesi ecco il ricorso alle analisi del tasso di abortività, ossia del rapporto tra il numero annuo di interruzioni di gravidanza e il numero di donne potenzialmente esposte a vivere tale esperienza. In pratica: il numero di aborti per ogni mille donne in età feconda (per definizione il 15esimo e il 50esimo anno). Questo tasso ha raggiunto punte del 17-18 x 1.000 nel corso degli anni '80 e adesso è più o meno attorno al 10 x 1.000 da qualche tempo e quindi, alla fine, è considerato un valore sotto la soglia di allarme.
Proviamo tuttavia a riflettere su cosa vuol dire un tasso di abortività del 10 per mille in termini di diffusione del fenomeno. Se ci mettiamo a fare il conto su quale potrebbe essere l'incidenza della pratica abortiva in una società con un tasso annuo di questo livello scopriamo che in media una donna su tre vivrebbe, prima o poi, l'esperienza dell'aborto volontario. Magari sarà un tasso 'insignificante', sarà 'fisiologico', sarà pure 'inferiore che altrove', ma pensare che, stando così le cose, il dramma dell'esperienza abortiva colpirebbe, prima o poi una donna su tre (in media), non è un fatto così marginale. Se poi teniamo conto che stiamo parlando di una intensità (il 10 x 1000) calcolata sul complesso delle donne in età feconda e che tra loro non tutte sono necessariamente esposte all'aborto nello stesso modo (è ovvio che chi, per motivi vari, non ha attività sessuale è esclusa dal rischio abortivo), ci si rende conto che, se circoscritto a chi effettivamente è a rischio, il rapporto non è di una donna su tre, ma è certamente più alto. Ciò nonostante, guai fare dell'allarmismo: potrebbe alterare l'immagine di pieno controllo che il Rapporto del Ministro si proponeva di accreditare.
In questa logica, anche la scelta degli indicatori e i relativi confronti nel tempo e nello spazio hanno un loro peso. C'è ad esempio un'altra affermazione molto interessante che si ricava dalla Relazione ministeriale, quando si dice che «siamo uno dei paesi con la più bassa abortività». È interessante perché non è affatto vera. È solo il risultato di un gioco di numeri scelti e letti a piacere. Se si guardano realmente i dati di altre realtà europee, scopriamo che siamo più bassi rispetto ai paesi dell'Est Europa (che ancora scontano il prezzo di mezzo secolo di cultura comunista), ma se andiamo a prendere la Svizzera, la Germania, il Belgio, l'Olanda, la Spagna, la Finlandia, scopriamo che sono tutti paesi con tassi di abortività più bassi del nostro. Ne segue che anche qui, con questo atteggiamento, si è voluta accreditare la tesi secondo cui il problema non esiste, barando un po' da dilettanti sui numeri, ma speculando sull'ingenuità (o la disinformazione) della gente.
Poi, a ben vedere, sono due gli indicatori con i quali si dovrebbe misurare l'abortività in un dato intervallo di tempo. Uno è il tasso, di cui si è trattato sino ad ora, ovvero gli aborti per mille donne in età feconda. L'altro è il rapporto di abortività, che è ancora una misura di incidenza dell'aborto, ma si ottiene facendo una divisione tra il numero di aborti e il numero di nati. Calcolare il rapporto di abortività è quindi come contrapporre le nascite interrotte alle nascite realizzate. In un certo senso l'indicatore è più completo del precedente (che per altro resta di grande utilità), in quanto risente della capacità nell'accettare in generale le gravidanze, ivi comprese quelle non programmate. Se ragioniamo in questi termini e osserviamo che il rapporto di abortività è oggigiorno attestato attorno ai 250 nati non accettati per ogni 1000 nati vivi dobbiamo concludere che, per dirla in maniera semplice, un bambino su cinque non nasce. Anche qui, c'è chi sostiene che alla fine ciò sia poco (solo perché in passato era ancor peggio) e c'è chi ritiene che il livello sia fisiologico. Certamente si tratta di una dimensione consistente che non può non fare una certa impressione. Uno su cinque non è uno su cinque milioni! È come dire che ogni quattro bambini che incontriamo ce ne sarebbe un quinto cui è stata legalmente negata, grazie ad una norma saggia e lungimirante, quella stessa vita che riconosciamo sacra agli assassini.
Queste sono alcune delle molteplici considerazioni che derivano dalla lettura dei numeri sull'IVG. Come si vede, non si sta inventando nulla, ci si limita a prendere in esame le elaborazioni dei così detti dati ufficiali. Perché qui parliamo di aborti rilevati ufficialmente, con tanto di scheda Istat e quindi di conteggio alla fine di ogni anno. Ma in realtà ci sarebbe anche qualcos'altro da aggiungere rispetto alla qualità dei dati e alla loro rispondenza, nel tempo, riguardo al fenomeno che dovrebbero rappresentare. Non è un mistero che le attuali tecnologie siano ben diverse da quelle degli anni '80. Quando nell'83 si contavano più aborti di oggi, il mondo e le conoscenze mediche, le apparecchiature, i farmaci e gli stessi atteggiamenti nell'affrontare il fenomeno erano ben diversi. Sono passati più di vent'anni, quasi un quarto di secolo, è chiaro che molto è cambiato ed è altrettanto chiaro che non tutti gli aborti che si realizzano con tecnologie avanzate passano attraverso le certificazioni mediche, quindi le rilevazioni statistiche. In conclusione, è vero che oggi le IVG sono poco meno di 150mila e che allora erano quasi 250mila, ma oltre agli attuali casi conteggiati quanti altri ce ne sono che non vengono in qualche modo identificati e registrati? Anche questa è una considerazione che varrebbe la pena di introdurre per una corretta lettura e interpretazione dei dati ufficiali e delle relative dichiarazioni di pieno controllo.
Chi sono le donne che abortiscono?
Se è ormai chiaro che, nel complesso, il tasso di abortività si è ridotto rispetto agli anni '80, non sembra tuttavia essersi di molto modificato il profilo per età delle donne coinvolte dal fenomeno. L'Italia si è caratterizzata sin dall'origine come un paese che aveva un modello di abortività un po' particolare: più da Est Europa che da paese occidentale. Presso di noi l'abortività era più spesso di carattere coniugale e d'arresto; nel senso che era molto praticato in corrispondenza di ordini di nascite abbastanza alti (dal terzogenito in poi). Non era tanto una questione di minorenni o di soggetti comunque molto giovani, ma per lo più di donne sposate che usavano l'aborto per contenere la dimensione familiare. Confrontando il profilo dei tassi di abortività per classi di età oggi e nel 1983 si vede chiaramente che le intensità si sono in genere ridotte, ma sorprende il fatto che non sia affatto abbassata la prima fascia, quella delle meno che ventenni. A ben vedere, se come si dice tutto è sotto controllo anche perché si sta imparando la contraccezione efficace ci si aspettava di rilevare che anche le più giovani avessero beneficiato del maggior grado di informazione. Come mai l'incidenza dell'IVG, che è diminuita nelle fasce più avanzate, non è diminuita affatto nelle fasce giovani? Ancora una volta, prima di dire che tutto è sotto controllo converrebbe approfondire le singole tessere del mosaico.
Quanto poi alla caduta degli aborti tra donne con due o tre e più figli, questa è anche derivante dal fatto che ormai le donne con almeno tre figli sono piuttosto rare. C'è stata una diminuzione della fecondità in Italia che ha colpito gli ordini superiori al primo e che quindi ha creato un universo di donne con spesso un figlio, qualche volta un secondo, ma difficilmente un terzo. È chiaro che, essendo diminuita la popolazione a rischio con queste caratteristiche, sia diminuita anche l'incidenza rispetto ad esse e quindi il suo effetto sul tasso complessivo.
La nostra relazione ministeriale, semmai deve trovare qualcosa che ancora non va come dovrebbe, la scopre nell'abortività delle donne straniere. Sarebbe, infatti, loro la colpa di una certa resistenza del fenomeno. D'altra parte sappiamo ormai tutti che l'Italia è diventato un paese di immigrazione. Gli stranieri sono oggi oltre quattro milioni e in prospettiva saranno ancora di più. Si tratta di una popolazione, non più solo di forza lavoro, che si è via via costituita attraverso i ricongiungimenti familiari con l'arrivo di coniugi e figli. La ricostituzione delle coppie e il frequente disagio del vivere la condizione di immigrata, sono in effetti i fattori che hanno favorito la crescita dell'abortività tra le donne straniere. Attualmente l'incidenza dell'abortività nella popolazione straniera è molto alta, se diamo un'occhiata alle curve della frequenza delle IVG e delle nascite nella popolazione straniera vediamo come siano quasi coincidenti: oggi 40mila IVG a fronte di 50mila nascite. Ecco un segnale di disagio dell'essere madre in immigrazione sul quale è chiaro che si deve intervenire, ma non dando un più facile accesso alle informazioni per interrompere la gravidanza bensì risolvendo i problemi che creano il disagio. Cercando di capire perché una donna straniera abortisce, perché non accetta (o non è in condizione di poter accettare) un figlio. Spesso è per la condizione economica, abitativa, professionale o per una causa che si potrebbe rimuovere o che comunque vale la pena individuare, per valutare se e come poterla rimuovere.
E veniamo ad un altro punto controverso, quello sulle IVG ripetute. In proposito la relazione ministeriale dice che «la percentuale delle IVG ripetute (ossia quelle di coloro che fanno un'interruzione di gravidanza avendone già fatta un'altra prima nella loro vita) è del 26%». Ciò premesso, si afferma che, secondo valutazioni dell'Istituto Superiore di Sanità, il numero di IVG ripetute che si verificano oggi in Italia è inferiore a quello che ci si potrebbe attendere. Quindi vuol dire che nel tempo il tasso si è progressivamente ridotto e che quindi emerge un ulteriore elemento a conferma del pieno controllo della situazione.
Poiché questa cosa non convince e siccome esistono autorevoli lavori scientifici in tema di abortività ripetute, si è cercato di capire se i dati sul tasso al 10% e gli aborti ripetuti al 26% fossero coerenti, e in realtà non è sembrato che quadrassero. Detto in termini semplici, in base ad un modello di analisi dell'abortività ripetuta (a suo tempo pubblicato sulla rivista Genus), se la percentuale di aborti ripetuti è del 26% il tasso di abortività vero deve essere superiore al 10% indicato nei dati ufficiali. C'è dunque sotto qualcosa che non funziona e che nella relazione e nelle dichiarazioni ministeriali ufficiali non emerge. Anzi, si enfatizza che rispetto al modello dell'Istituto Superiore di Sanità stiamo molto più in basso, quindi il fenomeno dell'abortività ripetuta, che è indubbiamente un aspetto chiaramente tra i più problematici, è un altro di quelli sotto controllo.
Il bilancio
Dopo trent'anni di interruzioni di gravidanza, verrebbe anche da chiedersi che cosa è successo in termini di risorse umane sottratte al paese.
D'altra parte la popolazione che manca è tutt'altro che marginale. Guardando la piramide dell'età dei non nati si ha la percezione di quanto abbiano significato tre decenni di aborto legale nel nostro paese. Se poi si va a vedere anche l'effetto sulle seconda generazione, ossia i mancati figli dei non nati per effetto dell'IVG, si scopre che il loro numero sarebbe quasi equivalente a quello delle nascite che provengono dalla popolazione straniera. Come dire che quel 10% di nascite da stranieri che i demografi vanno enfatizzando perché salvano il pareggio del bilancio demografico nazionale, si sarebbero potute ottenere semplicemente come contributo da parte delle generazioni abortite nel corso degli ultimi trent'anni. Non si vuole certo drammatizzare, però questo è un dato di fatto.
E lo è ancora di più se si considerano i discorsi sulla popolazione che invecchia e sul finanziamento del welfare. Si parla tanto dei problemi del cambiamento demografico, si discute su chi pagherà le pensioni; si fanno schermaglie politiche sugli scaloni e sulle finestre per uscire dall'attività lavorativa; si dubita sulla sostenibilità della spesa sanitaria e si dimentica che abbiamo perso 5 milioni di soggetti, in un paese che ringrazia il cielo di avere 4 milioni di immigrati che gli danno una mano per tirare avanti. Questa è la situazione paradossale.
Siamo un paese che da trent'anni è sotto il ricambio generazionale, ossia è incapace di garantire quei due figli per donna (in media) che assicurano la continuità ad una popolazione. Oggi in Italia siamo al livello di 1,3 anche grazie al contributo dell'immigrazione, ma sono tre decenni che si va avanti così. Quindi non è più, come dire, un raffreddore o un'influenza, è una malattia cronica. D'altra parte il problema demografico dell'Italia deriva non tanto dal fatto che non si fanno figli, ma che non si fanno figli di ordine superiore al primo. Perché è evidente che, se si vogliono avere mediamente due figli per coppia, occorre che qualcuno ne faccia almeno tre.
Dove ci porterà dunque il cambiamento demografico in atto e l'aggravante di non aver saputo salvaguardare un capitale umano di 5 milioni di non nati per interruzione di gravidanza? Gli scenari sono ben noti: invecchiamento della popolazione e quindi stazionarietà o declino numerico. I quasi 60 milioni di italiani di oggi tenderanno a diminuire ma non in modo equilibrato, bensì con un forte squilibrio a favore delle età anziane per assenza di un adeguato ricambio generazionale. E non possiamo neppure teorizzare che ci salverà l'immigrazione, perché un significativo risultato da questo punto di vista si potrebbe ottenere solo con flussi di immigrati di proporzioni realisticamente poco gestibili.
Le prospettive di sviluppo della popolazione italiana, conseguenti al mancato ricambio generazionale, si possono riassumere in alcuni grandi dati. Le persone con oltre 60 anni, che negli anni '50 erano 5 milioni nel 2050 diventeranno 20 milioni. I giovani, 0-19enni, che erano 15 milioni allora, diventeranno circa 8 milioni. Il sorpasso tra gli ultra sessantenni e i meno che ventenni c'è già stato nei primi anni novanta. Adesso sta andando davanti al sorpasso ad opera degli ultra sessantacinquenni. Quindi in sostanza un po' alla volta il gruppo dei giovani scende progressivamente ed il gruppo degli anziani cresce. Un'altra cosa che non è irrilevante è la dinamica della fascia di età centrale da 20 a 59 anni, che in prospettiva va anch'essa a diminuire. Il dramma è che si tratta della popolazione in età lavorativa, quelli che dovrebbero in qualche modo mantenere sia i giovani in formazione, sia gli anziani in pensione. Se poi andiamo a vedere cosa succede all'interno degli anziani, si può subito vedere che gli ultra sessantacinquenni erano 4 milioni negli anni '50, sono diventati oggi intorno ai 12-13 milioni e saliranno a 18 nel 2050. E all'interno di questi, quelli con più di 80 anni diventeranno, alla stessa data, circa 8 milioni, ossia quanto i giovani. Si prospetta dunque il sorpasso tra la popolazione meno che ventenne e la popolazione più che ottantenne.
Di fronte a tali cambiamenti i problemi che avanzano non sono solo quello delle pensioni, ma vi sarà anche un problema di sanità e forse di adeguata offerta di lavoro. E sarà illusorio aspettarsi che la magica soluzione provenga dai flussi migratori. Se il flusso netto di immigrati non sarà a livello di almeno mezzo milione costantemente ogni anno livello che però porterebbe problemi di convivenza non facili da gestire il beneficio sarà presente ma non sufficiente a risolvere i nostri problemi. Così come non si rivelerà sufficiente a mantenere gli attuali livelli di natalità. Se, infatti, proviamo a chiederci quanti immigrati ci servirebbero per conservare nei prossimi 15 anni il livello attuale di 550mila nati, con qualche simulazione si scopre che se dovesse esserci un ingresso netto annuo di 150mila immigrati, le nascite in Italia scenderebbero a 450mila progressivamente. E continuerebbero a scendere, anche se ci fossero 250mila ingressi netti l'anno. Ed ancora se ce ne fossero 350mila. Alla fine si vede agevolmente che se vogliamo arrestare la diminuzione e mantenere stabile il numero dei nati, dobbiamo mettere in conto un numero di ingressi medio annuo costanti quindi ogni anno di 450mila immigrati. Il famoso circa mezzo milione di cui si è detto prima. Si può fare? È accettabile? Il sistema l'assimila? È la soluzione? Ecco, queste sono alcune delle cose sulle quali riflettere.
Chiudiamo con un po' di ottimismo. Dopo aver affrontato con realismo il panorama dell'aborto ed averlo collocato negli scenari demografici che vanno configurandosi, proviamo a considerare anche che, nonostante i 5 milioni di non nati, non sempre una gravidanza problematica finisce in aborto. Lo si dice anche alla luce dei dati che testimoniano, ad esempio, l'attività di organizzazioni come i CAV, SOS Vita e altre analoghe nel corso di questi anni.
È bello scoprire, anche in forma anonima attraverso le statistiche, quanti casi di gravidanza problematica sono stati risolti con l'aiuto di tante persone di buona volontà piuttosto che attraverso la drammatica scelta dell'IVG. Questo risultato, che vale in maniera differenziata in funzione dell'età, è un segnale importante che testimonia la possibilità e la capacità del fare.
Non lo scopriamo certamente adesso, sono decenni che diverse iniziative sono in atto. Si è visto che quando la via dell'IVG ha motivazioni legate al disagio, al bisogno di supporto, alla mancanza di un aiuto, basta relativamente poco per salvare un bambino. Forse questa è la fantomatica prevenzione che la legge 194 enuncia nei principi e ignora nei fatti. E le relazioni al parlamento fingono di non vedere il grande lavoro di chi sulla propria pelle e con il proprio sacrificio dimostra quotidianamente che i numeri non sono solo quelli delle IVG attuate, ma anche e soprattutto quelli delle IVG evitate.