La legge 194 del 1978. Origine storica, contenuti ed effetti sulla società italiana
Mario Palmaro
La legalizzazione dell'aborto è uno dei fenomeni più eloquenti di come il diritto sia in grado di influenzare in modo determinante la mentalità di un popolo e di condizionarne i costumi e gli stessi criteri di giudizio morale[1]. Prima dell'introduzione delle leggi permissive in materia, l'aborto procurato era non soltanto punito dall'ordinamento giuridico, ma percepito come un atto illecito dal senso comune diffuso. L'esistenza della pratica clandestina che ha origini molto antiche, come attesta paradossalmente lo stesso divieto contenuto nel Giuramento di Ippocrate[2] costituiva certo un problema rilevante, ma non incrinava la certezza nel valutare quell'atto come delittuoso: esso comporta la soppressione di un essere umano innocente, e come tale merita di essere vietato e punito.
Del resto, tutta l'esperienza giuridica, soprattutto in ambito penale, si può riassumere nella costante ripetizione di un divieto che si scontra quotidianamente con la sua più o meno frequente violazione. Gli Stati puniscono il furto e l'omicidio non già perché si illudano di eliminare furti e omicidi, ma proprio perché constatano che ogni giorno accadono furti e omicidi. La norma giuridica combatte la sua eterna battaglia contro la violazione del precetto giuridico, aspirando a contenere, limitare, dissuadere. Ovviamente, quanto più la norma giuridica scende a compromessi e alza la sua soglia di tolleranza, tanto più il comportamento deviante si diffonde e si accredita come legittimo nella mentalità comune di una comunità.
In Italia, a distanza di trent'anni dall'approvazione della legge 194, si può constatare come si siano tristemente concretizzate tutte queste considerazioni di natura teorica. Oggi la mentalità comune sembra accettare come indiscutibili una serie di enunciati che proviamo a riassumere così:
1. la donna è sovrana assoluta nella scelta se abortire o se proseguire la gravidanza (principio di autodeterminazione della donna)
2. vietare l'aborto procurato è non soltanto sbagliato, ma semplicemente impossibile (principio di effettività della norma)
3. ogni Stato ha il dovere di assicurare alla donna un aborto sicuro, libero e gratuito (principio di socializzazione dell'aborto e dei suoi oneri)
4. l'aborto è un argomento di esclusiva competenza femminile (principio di esclusione del maschio)
5. le leggi che regolamentano l'aborto non si discutono perché non si può tornare indietro (principio di progressività della storia)
6. poiché l'aborto è una scelta, esso non deve essere imposto alla donna (principio di autodeterminazione)
7. il sostegno alla maternità è un fatto lodevole e da incoraggiare, purché esso non interferisca con la libera determinazione della donna (principio di solidarietà libertaria)
Soltanto quarant'anni fa, all'uomo della strada ognuna di queste affermazioni sarebbe apparsa assurda, illogica, addirittura incomprensibile. Oggi ci troviamo immersi in uno scenario capovolto, benché alcuni preferiscano indorare la pillola e fingere che il contesto in cui ci troviamo a operare sia tutto sommato migliore.
In questo articolo cercherò di dimostrare come gran parte di questa transizione culturale sia stata determinata dalla legge sull'aborto. La mia tesi è che l'inversione di questo trend per quanto obiettivamente difficilissima sia possibile soltanto a partire dalla critica logico-razionale alle normative che autorizzano l'aborto procurato. Una critica che colpisca gli snodi fondamentali delle leggi abortiste, senza preoccuparsi almeno in via preliminare del quadro politico e culturale, e della apparentemente irrimediabile lontananza del senso comune dai giudizi di verità che questo lavoro obbliga a esprimere[3].
La genesi della legge 194
Le modalità con cui in Italia si giunge all'approvazione della legge sull'aborto sono molto importanti per comprendere quanto essa fosse carica di significati simbolici e di valenze etico sociali. La legge 194 viene approvata il 18 maggio del 1978, nel clima plumbeo del terrorismo, e anzi nel momento probabilmente più spaventoso dell'offensiva armata contro lo Stato. Pochi mesi prima, il 16 marzo, uno dei più importanti leader politici italiani, Aldo Moro, era stato rinvenuto nel bagagliaio di una Renault 4, il corpo crivellato di colpi sparati dagli uomini delle Brigate Rosse[4].
Quel 18 maggio il Senato approva per dodici voti di differenza - la legge 194, che rende lecita la soppressione dell'essere umano concepito. L'intervento è a carico del Servizio Sanitario Nazionale e viene pagato da tutti i contribuenti, anche da quelli che sono contrari all'aborto di Stato. In Senato, gli applausi arrivano soprattutto dai banchi della sinistra: la legge passa infatti con l'appoggio decisivo del Partito Comunista, del Partito Socialista, del Partito Socialdemocratico e degli Indipendenti di sinistra. Anche i cosiddetti partiti laici il Partito Liberale e il Partito Repubblicano si schierano a favore della legge abortista. Votano contro i senatori della Democrazia cristiana e del Movimento Sociale Italiano-Destra nazionale, affiancati dagli Altoatesini. Votano contro ma per motivi totalmente diversi anche radicali e demoproletari.
Soltanto fino a tre anni prima quando nel 1975 era intervenuta la sentenza depenalizzatrice della Corte costituzionale - l'aborto era in Italia un reato, sanzionato dal codice penale. Come era stato possibile giungere così repentinamente alla legalizzazione?
Il fronte abortista aveva potuto lavorare indisturbato per modificare il senso comune. Innanzitutto, servendosi del progetto di occupazione gramsciana dei mass media, i quali diffondevano cifre assolutamente fantasiose sull'aborto clandestino. Fu messa in atto una vera e propria campagna di propaganda per l'aborto di Stato, cui presero parte quasi tutti i più diffusi quotidiani e rotocalchi. Il mondo cattolico,diviso al suo interno da una crisi d'identità alimentata dal '68 e dal clima postconciliare, non fu in grado di opporre una seria resistenza. C'erano addirittura parlamentari cattolici tra i fautori dell'aborto legale: furono Giovanni Gozzini, Raniero La Valle e Carla Codrignani a inventarsi il titolo - tragicamente comico - della legge 194, che reca Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza. Una tutela della maternità che in trent'anni ha provocato la morte di poco meno di cinque milioni di nascituri, secondo le stesse cifre ufficiali del Ministero della sanità.
Ma anche nella stessa Democrazia cristiana si manifestavano gravi segni di cedimento, perfino in alcuni dei suoi uomini più prestigiosi. Una prima avvisaglia del tradimento dello Scudo crociato si era già avuto il26 febbraio 1976, quando il gruppo Dc alla Camera votò insieme al Partito Comunista contro l'eccezione di incostituzionalità alla legge abortista. Nell'estate del 1976 sarà sempre un governo a guida democristiana (l'Andreotti Terzo) ad autorizzare in via straordinaria aborti eugenetici per le donne colpite dalla nube tossica di diossina a Seveso, nei pressi di Milano. Pochi ricordano che la 194 è l'unica legge sull'aborto al mondo che porti la firma esclusivamente di uomini politici cattolici. Quando viene pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 22 maggio del 1978, essa porta in calce la firma di cinque politici dello Scudo crociato[5]. I membri dell'esecutivo della Dc avrebbero potuto dimettersi piuttosto che firmare una legge assolutamente inaccettabile, ma rimasero al loro posto per il bene del Paese.
Il Capo dello Stato, anch'egli democristiano, Giovanni Leone, avrebbe potuto rimandare la legge 194 alle Camere per sospetta incostituzionalità, senza nemmeno dover rassegnare le dimissioni,in base all'articolo 74 della Costituzione. Invece, dopo soli quattro giorni firmò[6].
La legge 194: che cosa dice veramente
Le gente comune ha un'idea decisamente vaga, quando non del tutto erronea, della legge italiana che disciplina l'aborto. C'è infatti una legge 194 percepita che è completamente diversa dalla legge 194 reale.
Ci sono due livelli di ignoranza che riguardano questa materia, che provo a riassumere così:
a. gran parte dell'opinione pubblica vive avendo in testa una serie di luoghi comuni sulla legge 194. Ecco i principali: la legge permette l'aborto solo per i casi più tragici, come l'incesto e la violenza carnale; la legge consente di abortire solo per gravissime malformazioni; la legge è molto restrittiva e non consente a chiunque lo voglia di abortire; la legge permette di abortire solo quando il concepito è piccolissimo e non soffre, ma dopo i primi 90 giorni l'aborto non si può fare più.
b. Una parte degli studiosi e di quelle elite culturali che conoscono il testo della legge 194, tende spesso a presentare la 194 come una legge equilibrata, un punto di mediazione tra opposte posizioni, una scelta intermedia fra il divieto di aborto e la sua totale liberalizzazione. Il fatto più curioso è che, negli ultimi anni, queste interpretazioni si sono diffuse fra coloro che tradizionalmente hanno avversato la legalizzazione dell'aborto. E' proprio in questo ambito che si vanno consolidando interpretazioni davvero fantasiose intorno alla legge italiana sull'aborto, che tendono a raffigurarla in maniera molto clemente, se non addirittura apologetica.
Le cose, però, stanno in maniera molto diversa: sia l'uomo della strada che l'intellettuale raffinato prendono un clamoroso abbaglio quando credono che la legge italiana sull'aborto sia rigida e perfino restrittiva.
Occorre sgomberare il campo da un equivoco, che talvolta viene alimentato dalla stessa pubblicistica di area cattolica. Mi riferisco all'idea in base alla quale la legge 194 sarebbe stata voluta originariamente con ottime intenzioni, e quindi possederebbe in sé un nucleo sostanzialmente buono; e che solo nella sua applicazione concreta si sarebbe verificato un equivoco che ne avrebbe capovolto scopi e risultati.
Questo giudizio è semplicemente, oggettivamente falso.
La lettura della legge 194, la conoscenza degli atti parlamentari che hanno affiancato la sua approvazione, le modalità della sua applicazione, le decisioni della Corte costituzionale e del giudice di merito, confermano un dato inconfutabile: la legge 194 voleva legalizzare l'aborto con la massima ampiezza, e questo risultato è stato obiettivamente raggiunto[7].
Il clima culturale in cui è stata approvata la legge 194 nel nostro Paese è essenziale per ricostruire la ratio che ha guidato il legislatore nella stesura di questo testo controverso. Provo a riassumere questi presupposti culturali, che sono fedelmente assorbiti ed espressi dai 22 articoli della legge:
1. Centralità della donna: il problema dell'aborto è visto come questione esclusivamente femminile, che deve essere ricondotto nella sua esclusiva sfera di valutazione.
2. Il padre è completamente escluso dalla decisione e perfino dalla conoscenza della stessa gravidanza; verrà interpellato se la donna lo ritiene opportuno, ma il peso del suo parere è nullo in riferimento alla scelta abortiva.
3. Rimozione del concepito dall'orizzonte del legislatore, che prende in considerazione esclusivamente la condizione della donna e le ragioni che la inducono a chiedere l'aborto.
4. Nessuna parte terza deve realmente intromettersi nella decisione della donna: tutte le sentenze che hanno interpretato la 194 hanno confermato la tesi più permissiva, in base alla quale il fatto che la donna chieda l'aborto nei primi 90 giorni è in sé causa sufficiente per comprovare che esiste una ragione per concederle il certificato.
5. Il concepito non ha alcun diritto. Le limitazioni - per altro blande - che sono poste alla pratica abortiva non sono direttamente e apertamente giustificate con l'esigenza di contemperare i diritti della donna con quelli del figlio. L'aborto viene escluso soltanto qualora il feto sia viabile, cioè sia giunto a una fase del suo sviluppo che ne rende plausibile la sopravvivenza.
6. Il legislatore non assume una posizione di sfavore nei confronti dell'aborto, come invece accade in alcune normative pure abortiste - ad esempio la legge della Repubblica federale di Germania, per cui i colloqui di aiuto alla donna, non sono mai collegati all'idea che si debba comunicare alla gestante una sorta di sfavore della collettività rispetto all'atto abortivo. Domina la logica della scelta per la scelta, cioè l'idea che il valore tutelato sia la libertà di scelta della donna, che non può essere in alcun modo non solo conculcata, ma nemmeno condizionata.
7. La legge 194 appartiene a una tipologia di norme che potremmo definire derogatorie. Leggi che assumono in maniera declamatoria un principio, per poi fornire tutti gli strumenti giuridici idonei a eludere quello stesso principio, capovolgendo nei fatti il senso delle parole e dei propositi originari.
8. All'articolo 1 della legge 194 si afferma che lo Stato tutela la vita umana fin dal suo inizio, ma non a caso si evita di chiarire che cosa si intenda per inizio, essendo evidente che un'eventuale riferimento al concepimento avrebbe innescato un conflitto logico rispetto alla pratica abortiva.
9. A dispetto delle sue premesse, la legge 194 introduce nell'ordinamento un antiprincipio assai grave: il diritto di vita e di morte di un consociato nei confronti di un altro essere umano. Questo ius vitae ac necis - noto al diritto romano arcaico che lo riconosceva al pater familias sui membri della sua comunità - è assegnato alla donna in maniera totale ed esclusiva, senza che esista un qualsiasi strumento attenuativo di tale debordante facoltà.
10. Questo effetto è ottenuto attraverso l'espediente della procedura, che caratterizza la 194 proprio come norma procedurale. Il legislatore infatti si astiene dal formulare un qualsiasi giudizio di valore sull'atto che va a rendere lecito, limitandosi a fissare un percorso che segna la linea di demarcazione fra ciò che è consentito e ciò che non lo è. Non è la sostanza dell'azione a contraddistinguere i presupposti di un eventuale reato, ma il mancato rispetto della procedura. Se una donna viene sottoposta ad aborto in una clinica privata, fosse anche nei termini del primo trimestre, allora scattano delle sanzioni per i medici e gli autori in genere della violazione della procedura. Se lo stesso atto clinico viene compiuto in una struttura pubblica, dopo l'emissione del certificato previsto dalla 194, allora tutto è pienamente lecito. Dunque, il legislatore sposta il giudizio di valore dell'opinione pubblica dall'atto abortivo alla sua ufficialità: non è più l'aborto ad essere un male in quanto reato contro la persona, ma è la clandestinità che connota negativamente un gesto che di per sé incontra la totale neutralità dello stato.
Il giudizio sulla legge 194
Da quanto abbiamo esposto, si può concludere che la legge 194 rimane a tutti gli effetti una legge gravemente ingiusta, non perché leda - come alcuni si ostinano a lasciar credere - il sentimento morale di una certa confessione religiosa - ma perché, molto laicamente, nega in maniera radicale un diritto fondamentale della persona umana, anzi, il diritto che è pregiudiziale al godimento di ogni altro diritto: il diritto alla vita[8]. Sebbene siano note alcune ragioni che hanno convinto l'opinione pubblica della bontà di questa legalizzazione ad esempio la piaga della clandestinità, i c.d. casi pietosi, le situazioni di indigenza economica e così via nessun argomento è così forte da giustificare alla luce della semplice ragione umana e della legge naturale l'uccisione volontaria di un essere umano innocente. La Conferenza Episcopale Italiana in un documento del 16 dicembre 1978[9] usava in tal senso espressioni inequivocabili: «L'applicazione del principio della tolleranza civile all'aborto legalizzato è illegittima e inaccettabile perché lo Stato non è la fonte originaria dei diritti nativi ed inalienabili della persona, né il creatore e l'arbitro assoluto di questi stessi diritti, ma deve porsi al servizio della persona e della comunità mediante il riconoscimento, la tutela e la promozione dei diritti umani. Così quando autorizza l'aborto, lo Stato contraddice radicalmente il senso stesso della sua presenza e compromette in modo gravissimo l'intero ordinamento giuridico, perché introduce in esso il principio che legittima la violenza contro l'innocente indifeso»[10]. E ancora: «Il giudizio morale negativo sulla legge abortista italiana risulta anche dai seguenti elementi: l'aberrante facoltà attribuita alla libertà della donna di decidere in termini unicamente individualistici, al di fuori e contro ogni responsabilità verso il diritto del nascituro; l'individualismo esasperato che ispira la legge abortista risulta ancor più grave dal fatto di essere riconosciuto dallo Stato, il quale a sua volta costringe tutti i cittadini, anche quelli dichiaratamente contrari all'aborto, a dare un qualche contributo»[11]. Da questo giudizio la Chiesa ricavava chiare e stringenti indicazioni per l'azione politica: «Rientra nell'impegno più propriamente politico dei cristiani: a) richiamare, con coraggio e con metodi democratici, il dovere di rispettare la vita umana sin dal suo inizio, denunciando di conseguenza l'iniquità della legge abortista; b) operare una lettura critica dell'attuale normativa sull'aborto: senza trascurare i limitatissimi elementi positivi, si dovranno rilevare le profonde contraddizioni che essa presenta con la Costituzione e all'interno dei suoi stessi articoli»[12]. Dichiarazioni che rendono surreale per non dir peggio ogni attuale tentativo di riposizionare il giudizio della Chiesa su un terreno anche solo di parziale assoluzione della legge 194 del 1978.
Note
[1] Una trattazione più approfondita di questo aspetto si può trovare in M. Palmaro, Ma questo è un uomo, Indagine storia politica etica giuridica sul concepito, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2004³; e nel più recente M. Palmaro, Aborto e 194, Fenomenologia di una legge ingiusta, Sugarco, Milano 2008.
[2] Ippocrate, Aforismi e Giuramento, Newton Compton, Roma 1994, 87-88.
[3] Un esempio di impegno pro life coerente con questa prospettiva è costituito in Italia dall'associazione aconfessionale Comitato Verità e Vita ( www.comitatoveritaevita.it ), attiva dal 2004 dentro una logica di critica radicale alle legislazioni anti-vita.
[4] Li aveva chiamati così Paolo VI, il Papa che sarebbe morto proprio nell'agosto di quel 1978, con l'amarezza nel cuore di chi aveva scoperto i segni della crisi, grave, dentro la Chiesa stessa: Il fumo di satana è entrato nel tempio di Dio aveva detto con parole terribili durante il suo pontificato.
[5] Si trattava del Presidente del Consiglio Giulio Andreotti e dei ministri Tina Anselmi, Francesco Bonifacio, Tommaso Morlino, Filippo Maria Pandolfi.
[6] Purtroppo non fu solo la paura, o l'attaccamento al potere, a portare al tradimento gli uomini della Dc. Da anni era in atto una trasformazione del partito, che gettava le basi per un disimpegno progressivo sulle questioni più scomode e cruciali. Il 20 luglio del 1975, al Consiglio nazionale della Democrazia cristiana, il premier in carica Aldo Moro prende la parola: «La ritrovata natura popolare del partito induce a chiudere nel riserbo delle coscienze alcune valutazioni rigorose, alcune posizioni di principio che sono proprie della nostra esperienza in una fase diversa della vita sociale, ma che fanno ostacolo alla facilità di contatto con le masse e alla cooperazione politica. Vi sono cose che, appunto, la moderna coscienza pubblica attribuisce alla sfera privata e rifiuta siano regolate dalla legislazione e oggetto di intervento dello Stato. Prevarranno dunque la duttilità e la tolleranza». La linea politica era dunque tracciata, nel segno della resa e del rinnegamento dell'identità sulle cose che contano Il 21 gennaio del 1977 Giulio Andreotti annotava sul suo diario: «Seduta a Montecitorio per il voto sull'aborto. Passa con 310 a favore e 296 contro. Mi sono posto il problema della controfirma a questa legge (lo ha fatto anche Leone per la firma) ma se mi rifiutassi non solo apriremmo una crisi appena dopo aver cominciato a turare le falle, ma oltre a subire la legge sull'aborto la Dc perderebbe anche la presidenza e sarebbe davvero più grave». Dunque, la perdita della presidenza del Governo veniva giudicata più grave della responsabilità morale di sottoscrivere una legge che decretava la sentenza di morte per un numero incalcolabile di bambini innocenti.
[7] In questo senso si legga il testo, ancora oggi pienamente valido, di C. Casini - F. Cieri, La nuova disciplina dell'aborto, CEDAM, Padova 1978. Per un approfondimento della materia si veda anche il commentario di M. Zanchetti, La legge sull'interruzione volontaria della gravidanza, CEDAM, Padova 1992.
[8] In tal senso si rilegga con attenzione Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, 1995, enciclica nella quale la Chiesa ribadisce la sua condanna non solo per l'atto abortivo come illecito morale (categoria etica del peccato), ma per la decisione delle democrazie contemporanee di trasformare questo delitto in un vero e proprio diritto (categoria giuridica del reato).
[9] Conferenza Episcopale Iitaliana, La comunità cristiana e l'accoglienza della vita umana nascente, Roma 1978.
[10] Ibidem, Par. III, 15
[11] Ibidem, Par. III, 17.
[12] Ibidem, Par. V, 51.