Necessità del fondazionalismo a fronte delle attuali bioetiche neo-utilitariste e derive biotecnologiche

Giuseppe Brienza


Avanzano nella pubblicistica bioetica degli ultimi decenni proposte anti-umane che, pur essendo evidentemente insensate, stanno incredibilmente acquisendo un certo credito perfino nel dibattito internazionale[1]. Soprattutto nell'ambito delle c.d. scienze della vita, a causa dell'affermarsi del relativismo e dello scientismo (nonché di “meno ideali” interessi economico-finanziari e di potere), si vanno infatti teorizzando e mettendo in pratica principi e prassi dirette ad operare uno sconvolgimento del concetto ontologico di vita e dignità umana, al fine di legittimare non solo un intervento invasivo e manipolativo sulle prime fasi della vita dell'uomo, ma anche sulla sua stessa “struttura” biologica (genoma e geni).
Al neopositivismo secondo-novecentesco si aggiunge oggi quindi un'altra corrente “culturale” che contribuisce a deviare il discorso sulla natura umana in direzione anti-ontologica, quella che potremmo definire bio-tecnica, il cui fine essenziale è quello di dimostrare come «[…] la conservazione della vita e la sua propagazione non è più affidata a mitici congegni (che una altrettanto mitica metafisica chiamava impulsi di natura), ma alla stessa tecnica umana […]: i verdetti che la ragione dà a se stessa nell'ambito della convivenza umana non sono quindi fondati e proposti da una ipotetica inclinazione naturale, del resto incontrollabile; non sono dunque l'irradiazione di una natura specifica immutabile, ma sono leggi suggerite dalle diverse situazioni storiche variabili, il cui valore è provvisorio (sociologismo); e del resto la loro problematica è riducibile alla pura coerenza logica interna delle formule onde essi sono espressi (neopositivismo)»[2].
Con un tale “apparato teoretico” si capisce come vada velocemente affermandosi quella prassi biotecnologica «[…] pilotata da una precomprensione dell'uomo come un essere su cui si può intervenire con eugenetiche di vario colore. Il dialogo è invece favorito dal riconoscimento dei limiti della ragione, compresa quella scientifica, nella consapevolezza tuttavia che un abisso corre fra l'assunto che la ragione è sempre fallibile e quello che la ragione può più o meno frequentemente sbagliarsi»[3].
Secondo l'ideologia scientistica contemporanea nulla dovrebbe esser sottratto all'energia manipolante della tecnica, nella quale è riflessa una sorta di volontà di potenza che non riconosce alcun “punto fermo”. Il volontarismo prometeico, quindi, rifuggendo da qualsiasi interrogativo sul fondamento dell'etica, sta veicolando una concezione che l'assimila ad una nichilistica e cangiante creazione umana, per cui anche a livello giuridico «[…] niente è diritto naturale, tutto è diritto positivo, ossia positum e da chi se non dalla volontà di potenza del potere attualmente in vigore? Un assunto in cui si configura una nuova specie di nichilismo, quello giuridico. Non è il carattere di tecnica giuridica, ossia l'applicazione di procedure tecniche e logico-formali al diritto che fa il nichilismo giuridico, ma il fatto che qualsiasi contenuto può diventare diritto positivo se una volontà lo vuole e lo pone nello Stato»[4].
Il diffondersi e l'“applicazione pratica” (in campo biotecnologico ma non solo) di questo nichilismo giuridico è a mio avviso soprattutto conseguenza dell'abbandono della tematica fondazionalista, e questo tanto nella filosofia del diritto quanto nell'etica politica contemporanea. Ciò ha condotto all'attuale frammentazione ed iper-specializzazione del sapere che ha finito per allontanare la riflessione filosofica dal nucleo centrale che ne dovrebbe costituire il presupposto e fine ultimo: l'humanum. Il diritto, però, non può essere ridotto ad una tecnica organizzativa destinata a gestire i divergenti interessi del consorzio sociale oppure a fare da “contorno” agli sviluppi sempre più rivoluzionari della tecno-scienza. La filosofia giuridica, quindi, dovrebbe ritornare ad essere prima di tutto «[…] un modo di guardare e di riflettere sull'uomo. […] Se il rapportarsi all'alterità (il convivere sociale) è un'esigenza strutturale dell'uomo, il diritto risponde a tale esigenza assicurando, attraverso la regolamentazione oggettiva dei comportamenti, la interrelazionalità tra gli uomini, garantendo l'“apertura” (accoglienza) e impedendo la “chiusura” o negazione dell'alterità nell'assolutizzazione dell'io (da cui consegue o la reificazione del soggetto, che isolandosi solipsisticamente nega sé stesso, o la reificazione dell'altro nell'asservimento e nella conflittualità). […] Il “dover essere” (in termini logici, la deonticità) non si esaurisce in un “atto di volontà” (come sostengono taluni orientamenti contemporanei […]), bensì è riconducibile ad una “legge della ragione”, radicata oggettivamente (cioè, non arbitrariamente) nella natura dell'essere dell'uomo»[5].
In virtù di questa legge morale naturale è la persona umana a costituire il fondamento del diritto, essendo l'uomo il “primo diritto” e il “primo dovere” della giuridicità. Nel contesto del dibattito biotecnologico attuale, invece, l'identificazione tra il concetto di “persona” e quello di “essere umano” è sempre più pericolosamente messa in discussione. Non pochi autori, infatti, sulla scia delle teorie diffuse a partire dagli anni 1970 da due bioeticisti anglosassoni molto influenti come Hugo Tristram Engelhardt jr.[6] e Peter Singer[7], hanno iniziato a credere che “non tutti gli esseri umani siano da considerare come persone” e, viceversa, che “non tutte le persone sono esseri umani”. Questa de-sostanzializzazione del concetto di persona, acuita in sede bioetica, ha indotto parte della filosofia giuridica a concentrarsi sull'individuazione dei confini etici tra lecito e illecito nell'ambito delle nuove possibilità tecno-scientifiche.
Gli orientamenti “neo-utilitaristi” attuali, infatti, stanno avendo buon gioco nell'operare una drammatica “dissociazione” del “biologico” (o umano in senso lato) dal “personale”, così da non dover considerare più la vita umana biologica come parametro assoluto dell'esserci, dato che «l'essere umano “diviene” persona solo quando manifesta la capacità attuale di esercitare determinate funzioni o operazioni. Ciò comporta una discriminazione dell'umano a livello giuridico. Se non tutti gli esseri umani sono persone, non tutti gli esseri umani sono “soggetti di diritto/i”. Ciò comporta l'emarginazione della tutela giuridica degli esseri umani negli “stati di confine” (la vita prenatale, neo-natale e terminale) o nei cosiddetti “stati marginali” (la vita gravemente compromessa). Diviene fragile il riconoscimento dello statuto personale agli zigoti, embrioni, feti, infanti, come pure agli anziani, cerebrolesi, comatosi, handicappati: paradossalmente si rinforza lo statuto giuridico di esseri non umani, animali, vegetali, robots con intelligenza artificiale, generazioni future»[8].
L'ideologia bioetica post-moderna divulgata soprattutto negli ultimi due decenni da Autori affermati come i sopra citati Singer ed Engelhardt, nonché John Harris[9], che è anche detta “personismo” risolvendosi nella discriminazione degli esseri umani, trae la propria origine filosofica dalla distinzione cartesiana tra res cogitans, intesa come coscienza ed auto-dominio della volontà, e res extensa, identificata col corpo: «Essere umano significa dunque essere membro della specie biologica umana. La persona, invece, è quell'essere umano capace di vita cosciente e libera, di vita biografica, capace di essere se stesso, è l'essere dotato della capacità di disporre»[10].
Subordinando tutti i diritti, incluso quello alla vita, alla capacità di disposizione di sé, il post-modernismo bioetico o personismo giunge a sempre peggiori conclusioni: «Considerando l'autonomia come l'unica realtà che attribuisce diritti, Engelhardt arriva ad esempio a separare gli esseri umani adulti, che hanno diritti, dagli esseri umani semplicemente biologici, che non hanno diritti, come i bambini»[11]. Nel manuale Foundations of Bioethics, pubblicato nel 1986[12], successivamente rieditato[13] e tradotto in più lingue[14], il bioeticista statunitense, dopo aver affermato esplicitamente come «I feti, gli infanti, i ritardati mentali gravi e coloro che sono in coma senza speranza costituiscono esempi di non persone umane»[15], teorizza inoltre il ricorso coattivo al suicidio assistito quando la situazione di autonomia personale sia gravemente compromessa. In virtù della sua prospettiva morale di tipo a-sostantivo, egli così giustifica la liceità dell'eutanasia forzata: «Se la vita non è sempre meglio della morte, può essere benefico anticipare la morte, invece di lasciare che “la natura faccia il suo corso”. Ciò è vero anche quando la morte non è una libera scelta, fatta personalmente o mediante una direttiva anticipata dell'individuo che sta morendo. Se non vi è differenza di principio fra volere intenzionalmente la morte di qualcuno e limitarsi a permetterla, non vi sarà alcun impedimento morale assoluto contro l'anticipazione della morte, una volta che si sia deciso che il prolungamento della vita sarebbe dannoso […]. Considerato il diffuso rifiuto del suicidio assistito e dell'eutanasia nella nostra cultura, l'onere della prova di dimostrare tale consenso ipotetico sarebbe assai pesante»[16].
Anche Singer, muovendosi nel quadro dell'utilitarismo benthamiano, afferma come «[…] siano solo le conseguenze di un'azione a determinare se essa sia giusta o sbagliata e che, in particolare, essa sia giusta se causa minor dolore e maggior piacere rispetto a ogni altra alternativa disponibile a tutti gli esseri senzienti che vi sono coinvolti»[17]. Questo principio si traduce, ad esempio, nell'assunto per cui «[…] in mancanza di una qualsiasi forma di coscienza e di ogni speranza di recuperarla in futuro, la pura e semplice continuazione della vita biologica non arreca nessun beneficio al paziente»[18].
Nei suoi scritti di etica, Singer dissolve come Engelhardt il legame ontologico che unisce l'uomo alla persona, perché anche secondo lui possono benissimo esistere “persone” non umane e uomini privi della dignità personale[19]. Nel suo saggio Should the Baby Live?, del 1985, il bioeticista australiano spiega quindi come sia perfettamente lecito uccidere neonati gravemente ammalati od handicappati, dato che essi sono del tutto incoscienti, a meno che questo “provvedimento etico” non incontri espressamente il dissenso dei genitori o produca loro una sofferenza[20].
Singer afferma anche chiaramente che, essendo le categorie che fondano il diritto alla vita della persona stabilite non sull'essere in sé ma sulla sua autocoscienza, risulta impossibile stabilire una differenza sostanziale tra il feto e il bambino e, per questo, non si può difendere l'aborto senza sostenere contemporaneamente anche l'infanticidio.
La negazione in Engelhardt ed in Singer della qualifica di persona all'uomo è operata alla stregua di un panvitalismo materialistico, che vorrebbe ridurre tutti gli esseri umani ad un'unica sostanza: «Si tratta di una nuova visione cosmologica il cui presupposto è l'interdipendenza di tutti gli enti (animati ed inanimati) della natura e la dissoluzione di ogni confine tra uomo e mondo. La Terra con la sua biosfera e la sua umanità forma in questa prospettiva un sistema complesso e onnicomprensivo»[21]. Solo con il riconoscimento di un fondamento nella natura umana unica e trascendente del diritto si sarebbe in grado di arginare tali tipi di derive, attribuendo a ciascuna persona, a prescindere dalle sue condizioni esistenziali, la dignità di soggetto di diritti e di doveri, ossia di soggetto che il diritto è chiamato, per sua funzione costitutiva, a promuovere ed a proteggere.
La dottrina giusnaturalistica classica ritrova quindi proprio nella società attuale nuovi motivi per una sua rivitalizzazione, partendo dal fatto che ogni appello all'universalità dei diritti umani, consapevolmente o inconsapevolmente, reca con sé il «[…] riconoscimento dell'esistenza di diritti radicati nell'uomo in quanto uomo, ossia nell'uomo in quanto avente natura umana e che tale riconoscimento meta-positivo (ossia indipendente dalla concessione degli Stati o dalla positivizzazione dei legislatori) è un valore minimo transculturale irrinunciabile. […] Riconoscere la rilevanza etica e giuridica dei diritti umani significa riconoscere una verità sostanziale universale nella giustizia, quale garanzia (attraverso il diritto) della relazionabilità universale degli uomini (quale condizione dell'identità), dell'ordine delle libertà (la limitazione delle libertà quale garanzia della compossibilità delle libertà) e dell'uguaglianza ontologica (ossia dell'uguale trattamento per tutti gli uomini, rifiutando eccezioni e privilegi) secondo simmetria e reciprocità»[22].
Occorre quindi ribadire, sul piano ontologico e morale, il principio dell'inscindibilità dell'essere personale dall'essere umano, poiché solo così sarà possibile offrire basi oggettive e fondative all'etica e al diritto positivi, per una solida tutela della vita umana dal concepimento alla morte naturale.[ ]
Il pensiero della post-modernità, invece, celebra il tramonto dell'oggettività accompagnandolo con un'affermazione dogmatica della relatività dell' etica. Esso sfugge dunque a qualsiasi discussione sui principi, ritenendo impossibile pensare dei valori non solo come eterni ed immutabili, ma anche semplicemente come costanti. Al post-moderno difetta, insomma, una seria riflessione sia sui principi universali sia sulla natura dell'uomo «La cifra del postmoderno si racchiude infatti nel contingentismo più radicale, nella perdita di fiducia nell'oggettività del sapere: tutto è provvisorio, fenomenico, accidentale […] La natura è considerata un insieme casuale e complesso, plurale e frammentato di fenomeni, di eventi e di accadimenti situazionali e puntuali: l'uomo stesso è un fascio di fenomeni»[23].
Il tramonto dello sforzo elaborativo di una visione razionale e filosofica univoca ha portato ad una malintesa affermazione del principio del pluralismo culturale, molto diversa da quella teorizzata da Richard McKeon all'origine del sistema contemporaneo dei diritti dell'uomo, in virtù della quale è considerato intollerante chi solo esprima l'aspirazione ad una comunità sociale dotata di un'unica visione etica vincolante per l'agire. Tale politeismo etico sta provocando particolari danni in ambito bioetico, dato che la constatazione empirica della varietà degli interrogativi e delle risposte date dalle scienze della vita nelle diverse culture è brandita contro chi pretende di affermare l'esistenza di valori e principi universali. Secondo questi approcci riduzionistici e relativistici, la bioetica di ogni cultura andrebbe considerata come un sistema chiuso, autoreferenziale, contingente e relativo. Per la teoria degli “stranieri morali” di Engelhardt, ad esempio, esisterebbero tante bioetiche quante sono le diverse comunità morali che professano valori diversi o interpretazioni differenti dei medesimi valori, e che sono tenute insieme da tradizioni e pratiche comuni e da una visione condivisa della vita buona. Questa rappresentazione della formazione dell'identità individuale e comunitaria è però stata giudicata unilaterale e inadeguata anche da parte del pensiero post-metafisico. Se infatti il singolo vivesse davvero rinchiuso nella propria comunità, incapace di instaurare un dialogo con chi gli è “straniero” dal punto di vista morale, egli «[…] non sarebbe nemmeno in grado di trascendere i limiti della propria educazione morale, di “convertirsi” a punti di vista alternativi, di abbracciare una fede differente. Ma se ciò è possibile, è perché, pur dall'interno di una particolare comunità morale, l'individuo mantiene una capacità di dialogo razionale che gli consente di assumere punti di vista diversi, di aprirsi a nuove prospettive e, con ciò, di sviluppare la propria personalità. Se è così, non si potrà accettare che le immagini che ciascuno si forma della propria identità e del senso dell'agire morale siano univocamente determinate dalla sua appartenenza ad una certa comunità morale; si dovrà invece ammettere che vi è un complesso, sia pur molteplice e non univoco, di culture e tradizioni che contribuiscono a definire la cultura-ambiente, cioè l'insieme delle immagini di senso che danno forma alla comunità civile»[24].
Il riconoscimento di un fondamento naturale del biodiritto, in virtù di una bioetica personalistica e non utilitaria, equivarrebbe invece a delineare una costruttiva «[…] comunicabilità e di una “traducibilità” tra le bioetiche delle diverse culture (tutte, pur nelle proteiformi manifestazioni “espressive” egualmente “rivelative” della comune natura umana), che, mediante un confronto dialettico, tendono (idealmente) alla convergenza del molteplice nell'uno, del relativo nell'assoluto, del particolare nell'universale»[25].
Il pensiero cristiano, rispetto alla ragione “laica” giuridica, offre un fondamento religioso alla tutela della dignità umana. È facile dimostrare come il principio dell'intangibilità della persona sia intaccato ed indebolito proprio quando si cominci ad oscurare quell'inscindibile nesso che lega il divino allo status dell'uomo-immagine e somiglianza di Dio. Come ha ricordato il bioeticista Leon Kass, che è stato presidente del Consiglio Nazionale di Bioetica statunitense dal 2001 al 2005, «The fundamental reason that makes murder wrong - and that even justifies punishing it homicidally! - is man's divine-like status. Not the other fellow's unwillingness to be killed, not even (or only) our desire to avoid sharing his fate, but his - any man's - very being requires that we respect his life»[26].
Anche la ragione “post-metafisica” di Habermas è arrivata a porre seri interrogativi a proposito delle manipolazioni della vita conseguenti a visioni riduzionistiche e scientiste sulla dignità umana. Il filosofo tedesco ha ad esempio denunciato come la prassi sempre più diffusa delle diagnosi pre-impianto ponga una ipoteca sulle esistenze umane, sottoponendo l'uomo-nascituro ad un vaglio efficientistico, ad una sorta di “generazione con riserva”. La sperimentazione embrionale solleva poi problemi anche più gravi poiché gli uomini allo stato embrionale vengono usati come strumento di ricerca e, di conseguenza, completamente reificati. Ad entrambe queste prassi Habermas ha collegato una vera e propria strumentalizzazione ed offesa alla dignità umana, che rischia di minare «[…] l'autocomprensione dell'uomo come 'essere di genere'»[27] e di minacciare la sua identità personale. La manipolazione genetica dovrebbe dunque almeno dare origine ad un nuovo diritto che è stato definito dal filosofo tedesco diritto ad un patrimonio genetico non manipolato. I fondamenti biologici della nostra identità personale dovrebbero infatti essere indisponibili e tutelati giuridicamente.
Dimostrato dunque come non sia inaccettabile anche alla ragione secolare parlare di una natura umana, che essa è conoscibile e che è possibile giustificare la sua normatività, la dottrina dei diritti umani e, in generale, qualsiasi sistema morale può trovare in questa concezione un valido fondamento, metafisico e realistico, tale da poter garantire nel contempo sia l'universalità dei principi, sia la variabilità storica e culturale delle loro manifestazioni. Infatti, fondando i diritti umani sulla natura specifica dell'uomo, identificata con la ragione, essi si radicano su quelle che sono le “costanti antropologiche”, universali ma progressive nel loro disvelamento, così come universale è la legge naturale ma variabili e progressive sono le sue manifestazioni e le sue conclusioni. Questa è la forza di una fondazione dei diritti umani radicata nella natura umana e nel diritto naturale ad essa costitutivo rispetto ad una fondazione puramente positiva, che lascia i diritti dell'uomo in balia della volontà dei poteri tecnici, economici o legislativi, delle variabilità storico-sociali e del relativismo culturale.


Note

[1] Esempi di teorie radicalmente anti-razionali possono essere ravvisati, ad esempio, nei tentativi di dare un fondamento ai diritti “umani” degli animali [cfr. P. Singer: Not only for Humans Only: The Place of Non-Humans in Environmental Issues, in K.E. Goodpaster - K. M. Sayre (edited by), Ethics and the Problems of 21st Century, Notre Dame Press, Notre Dame (IN) 1979, 191-206; Animal Liberation, Random House, New York 1975 (2[nd] ed.: New York Review of Books, New York 1990 - tr. It. di E. Ferreri: Liberazione animale. Il manifesto di un movimento diffuso in tutto il mondo, Mondadori, Milano 1991-); (con P. Cavalieri) The Great Ape Project – and Beyond, in P. Singer - P. Cavalieri (edited by), The Great Ape Project. Equality Beyond Humanity, St. Martin's Griffin, New York 1993 (2[nd] ed.: New York 1996 - trad. It. di S. Bigi-A. Bosco: Il Progetto Grande Scimmia. Eguaglianza oltre i confini della specie umana, Theoria, Roma, 1994 -); Introduction ed A Final Word, in P. Singer (edited by), In Defense of Animals. The Second Wave, B. Blackwell, Malden (MA)/Oxford/Victoria 2006, rispettivamente 1-10 e 225-227; J. Feinberg, The Rights of Animals and Unborn Generations, in W. T. Blackstone (edited by), Philosophy & Environmental Crisis, University of Georgia Press, Athens 1974, 43-68]. Sull'argomento cfr. anche F. D'Agostino, «I diritti degli animali», in Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto, anno LXXI, n. 1, Milano gennaio-marzo 1994, 78-104; L. Battaglia, Etica e diritti degli animali, Laterza, Roma-Bari 1997; F. Viola, «La specificità dell'uomo e i diritti degli animali», in Fondazione Rui, n. 70, Roma settembre 1998, 29-36; V. Pocar, Gli animali non umani. Per una sociologia dei diritti, Laterza, Roma-Bari 1998; P. Cavalieri, La questione animale: per una teoria allargata dei diritti umani, Bollati-Boringhieri, Torino 1999; C. R. Sunstein-M. C. Nussbaum (edited by), Animal Rights: Current Debates and New Directions, Oxford University Press, Oxford/New York 2004; P. P. Onida, «Il guinzaglio e la museruola: animali, umani e non, alle origini di un obbligo», in Archivio giuridico, vol. CCXXIV, n. 4, Modena 2004, 577-608. Per quanto riguarda il tema, ancor più insensato, dei “diritti delle piante”, dei fiumi, ecc., cfr. R. Routley-V. Routley, Against the Inevitability of Human Chauvinism, in K. E. Goodpaster-K. M. Sayre (edited by), Ethics and the Problems of 21st Century, op. cit., 36-59 [contra: G. H. Paske, «In Defense of Human “Chauvinism”: A Response to R. Routley and V. Routley», in The Journal of Value Inquiry, vol. 25, n. 3, luglio 1991, 279-286]; K. M. Sayre, Starburst: a Conversation on Man and Nature, University of Notre Dame Press, Notre Dame 1977; R. Routley, Is There a Need for a New, an Environmental Ethic?, in M.E. Zimmerman - J. Baird Callicott - G. Sessions- K.J. Warren - J. Clark, Environmental Philosophy: From Animal Rights to Radical Ecology, Prentice Hall, Upper Saddle River, NJ 1993, 12-21.
[2] D. Composta, Natura e ragione. Studio sulle inclinazioni naturali in rapporto al diritto naturale, Pas-Verlag, Zürich 1971, 165.
[3] V. Possenti, Aspetti metafisici del dialogo fra scienza e fede, in V. Possenti (a cura di), Ragione e verità. L'alleanza socratico-mosaica, Armando, Roma 2005, 58.
[4] Cit. in G. Mura (a cura di), «Intervista a Vittorio Possenti su “Nichilismo e metafisica”», in Aquinas. Rivista Internazionale di Filosofia, anno XLIX, n. 1, Città del Vaticano gennaio-aprile 2006, (247-254), 251-252.
[5] L. Palazzani, Fondamenti filosofico-giuridici del concetto di persona e implicazioni bioetiche, in S. d'Ippolito-C. Circelli (a cura di), I fondamenti della dignità della persona, I.P.E.-Loffredo editore, Napoli 2006, 167.
[6] Il prof. Engelhardt, nato a New Orleans il 27 aprile 1941, ha studiato all'università di Austin, Texas, dove ha conseguito il Ph. D. in medicina nel 1969. Successivamente ha insegnato Filosofia della medicina alla Georgetown University dal 1977 al 1982 e, dal 1983, è professore alla Rice University di Houston, dalla quale dirige anche il Journal of Medicine and Philosophy. Per un profilo bio-bibliografico ed alcune prospettive critiche su Engelhardt cfr. B. P. Minogue-G. Palmer-Fernández- J. E. Reagan (edited by), Reading Engelhardt: Essays on the Thought of H. Tristram Engelhardt, Jr., Kluwer Academic Publishers, Boston (MA)/London 1997.
[7] Il prof. Singer, nato a Melbourne (Australia) nel 1946, dal 1999 è docente di Filosofia morale presso il Centre for Human Values della Princeton University e di Bioetica nel Center for Applied Philosophy and Public Ethics della Trobe University di Melbourne. Precedentemente ha insegnato nelle università di Oxford, New York, Colorado (Boulder) e California (Irvine), ha diretto il Centre for Human Bioethics della Monash University (Melbourne) ed è stato fra i fondatori dell'International Association of Bioethics (cfr. P. Singer, Note autobiografiche, in Idem, Scritti su una vita etica, Net, Milano 2004, 317-356 e L. Battaglia, Singer, Peter, in Enciclopedia Filosofica, terza edizione, Bompiani, Milano 2006, volume undicesimo, 10674-10675). Per un profilo critico della sua “teoria bioetica” cfr. D. Jamieson (edited by), Singer and his critics, Blackwell, Oxford (UK)/Malden (MA) 1999; F. D'Agostino, Parole di bioetica, Giappichelli, Torino 2004, 217-222; F. Pascual, «Una critica ai principi della «bioetica» di Peter Singer», in Studia Bioethica. Rivista della Facoltà di Bioetica dell'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, anno I, n. 1, Roma gennaio-aprile 2008, 61-67.
[8] L. Palazzani, Fondamenti filosofico-giuridici del concetto di persona e implicazioni bioetiche, in S. d'Ippolito-C. Circelli (a cura di), I fondamenti della dignità della persona, op. cit., 170.
[9] Cfr. F. Torralba Roselló, ¿Qué es la dignidad humana?: ensayo sobre Peter Singer, Hugo Tristram Engelhardt y John Harris, Herder, Barcelona 2005 e M. Reichlin, L'etica e la buona morte, Comunità, Torino 2002, cap. I: L'etica post-moderna e il diritto di morire (125-131).
[10] J. Ballesteros, Universalità dei diritti umani e critica al personismo, in F. Viola (a cura di), Forme della cooperazione: pratiche, regole, valori, il Mulino, Bologna 2004, 389.
[11] Ibid., 390. Sull'argomento cfr. anche S. Hanson, «Engelhardt and Children: The Failure of Libertarian Bioethics in Pediatric Interactions», in Kennedy Institute of Ethics Journal, vol. 15, n. 2, giugno 2005, 179-198.
[12] Cfr. H. T. Engelhardt jr., The Foundations of Bioethics, Oxford University Press, New York/Oxford 1986.
[13] Cfr. Idem, The Foundations of Christian Bioethics, Swets and Zeitlinger, Lisse 2000.
[14] Cfr., ad es.: H. T. Engelhardt jr., Manuale di bioetica, tr. it. di M. Meroni, Il Saggiatore, Milano 1991.
[15] Ibid., 126.
[16] Ibid., 364-365. Valutazioni parzialmente diverse Engelhardt sviluppa nel successivo saggio Death by Free Choice nel quale, recuperando una versione volontaristica dell'ideologia eutanasica, sostiene che, essendovi di male nell'assassinio umano il solo fatto di porre termine alla vita di un'altra persona senza il suo permesso, nel suicidio assistito a questo problema rimedierebbe il consenso individuale perché, il suicida capace di decidere, validamente consente [cfr. Idem, Death by Free Choice. Modern Variations on an Antique Theme, in B. A. Brody (edited by), Suicide and Euthanasia. Historical and Contemporary Themes, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht 1989, 251-280].
[17] L. Battaglia, Singer, Peter, in Enciclopedia Filosofica, op. cit., 10674.
[18] P. Singer, Ripensare la vita. La vecchia morale non serve più, il Saggiatore, Milano 1996, 77.
[19] Cfr. Idem: Practical Ethics, Cambridge University Press, Cambridge 1993 [2[nd] ed.: Cambridge 1999 (tr. it.: Etica pratica, Liguori, Napoli 1989)]; Rethinking Life and Death. The Collapse of Our Traditional Ethics, St. Martin's Griffin, New York 1994 (tr. it.: Ripensare la vita…, op. cit.); Writings on an Ethical Life, The Eco Press, New York 2000 (tr. It. di E. Ferreri ed altri: Scritti su una vita etica, op. cit.).
[20] Cfr. P. Singer-H. Kuhse, Should the Baby Live? The Problem of Handicapped Infants, Oxford University Press, Oxford 1985.
[21] R. de Mattei, «I diritti umani e l'Occidente», in il Foglio Quotidiano, anno IX, Roma 6 novembre 2004, p. III.
[22] L. Palazzani, «Cristianesimo, occidente, diritto e i valori dimenticati», in Iustitia, anno LIV, n. 2, Roma aprile-giugno 2001, (233-252) 243-244.
[23] Ibid., 236.
[24] M. Reichlin, L'etica e la buona morte, op. cit., p. 131.
[25] L. Palazzani, Note per una bioetica transculturale, in F. D'Agostino (a cura di), Pluralità delle culture e universalità dei diritti, Pluralità delle culture e universalità dei diritti, Giappichelli, Torino 1996, (333-340) 336.
[26] L. R. Kass, Life, Liberty and the Defense of Dignity: the Challenge for Bioethics, Encounter Books, San Francisco 2002 [tr. it.: La sfida della bioetica. La vita, la libertà e la difesa della dignità umana, Lindau, Torino 2007], 241.
[27] J. Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Einaudi, Torino 2002 [tr. ingl.: The Future of Human Nature, Polity, Cambridge 2003], 25.