Possibili cambiamenti della legge sull'aborto oggi in Italia

Carlo Casini


1. Premessa
Che la legge 194 deve essere cambiata lo dico e lo scrivo da più di tre decenni[1] e di recente l'ho sostenuto in una pubblicazione nella quale – con intenti divulgativi – ho cercato di fare un bilancio del trentennio di applicazione della norma che ha legalizzato l'aborto in Italia, recante la data 22 maggio 1978[2]. Perciò, vorrei, in questo scritto, riflettere in profondità soltanto sui cambiamenti realmente possibili oggi in Italia, dando per scontate le severe critiche già formulate alla legge[3], le quali, peraltro, devono essere sempre tenute presenti, soprattutto per vincere una diffusa resistenza al cambiamento che, per pigrizia, ignoranza o tattica politica induce qualcuno – anche del cosiddetto “mondo cattolico” – ad affermare che la 194 è una “buona legge”.
Le parole “possibili cambiamenti della legge sull'aborto oggi in Italia” circoscrivono la mia riflessione. L'aborto costituisce un problema epocale e planetario[4], ma le leggi, le condizioni culturali e politiche sono diverse da Paese a Paese. Non è possibile delineare una strategia di difesa giuridica del diritto alla vita uguale per tutto il mondo. Nelle nazioni dove sono state varate leggi permissive, la protezione del diritto alla vita nascente esige scelte diverse da quelle più efficaci dei Paesi dove l'aborto è stato legalizzato, nei quali il recupero di una migliore protezione giuridica della vita può presentare livelli di possibilità molto differenti. Ecco perché insisto sul carattere molto circoscritto di questo saggio.

2. La difficoltà del cambiamento

Il senatore Giovanni Berlinguer era relatore al Senato per incarico della maggioranza favorevole alla legge che, una volta approvata, ebbe il numero 194. Poco prima del voto finale, nel suo intervento conclusivo egli disse:
«Sarebbe assai utile e opportuno un impegno di tutti i gruppi promotori a riesaminare, dopo un congruo periodo di applicazione, le esperienze positive e negative di questa legge (...). Dovremmo riesaminare le esperienze pratiche, le acquisizioni scientifiche e giuridiche e assicurare da parte di tutti i gruppi parlamentari l'impegno di introdurre nella legge le necessarie modifiche (...). Ciò può garantire che vi sia, successivamente all'approvazione della legge, un lavoro comune sia nell'applicazione che nella revisione del testo. Dobbiamo ripartire continuamente dall'idea che il problema, per la sua complessità e delicatezza, richiede da parte di ciascuno di noi un alto senso di responsabilità, ed anche una profonda capacità di rivedere ciascuno, alla luce delle esperienze, idee e concetti che sembrano ora acquisiti e quasi cristallizzati»[5].
A parole, dunque, la legge nacque sotto il segno della provvisorietà. In effetti, gli argomenti più sfruttati per vincere la resistenza degli oppositori furono l'esigenza di evitare il referendum che il partito radicale aveva promosso nel 1975 contro le norme del codice penale che proibivano l'aborto – referendum la cui esecuzione era già stata fissata per il giugno 1978 (si ricordi che la legge 194 reca la data del 22 maggio 1978) – e l'infuriare del terrorismo (si ricordi che Aldo Moro era stato ucciso il 9 maggio 1978). Si sosteneva che il probabile successo del referendum avrebbe determinato un inaccettabile “vuoto legislativo” e che le inevitabili turbolenze della consultazione popolare sarebbero state occasione di inserimento per le violenze terroristiche. Perciò, l'auspicio di Berlinguer (“approviamo subito la legge, poi ci ripenseremo”) esprimeva uno stato d'animo diffuso che ha lasciato una traccia anche nella previsione contenuta nell'art. 16, di una relazione annuale al Parlamento sulla attuazione della legge. I Parlamenti, si sa, fanno, abrogano e modificano le norme. Pertanto, il senso della relazione non può che essere lo stimolo in una tale eventuale direzione.
Con questa nota, caratterizzante la nascita della legge 194, si contrasta la diffusa affermazione della immodificabilità della legge ripetuta continuamente fino ad oggi. In realtà, molti elementi rendono assai difficile ottenere una correzione del testo legislativo. Anzi, ogni pur timida proposta in questo senso viene immediatamente bloccata con irritazione e supponenza, quasi si trattasse di un gesto di lesa maestà. Ciò che peraltro merita una particolare riflessione è il fatto che, anche in vaste aree del “mondo cattolico”, l'idea di una riforma non sembra trovare entusiasmo. Bisogna capire perché. Per raggiungere un obiettivo difficile, occorre preliminarmente verificare e riunire le forze necessarie. In primo luogo, bisogna constatare che la menzogna e la censura, compagne da sempre della legge 194, sia nella fase di approvazione sia in quella di attuazione, continuano a produrre gli effetti cui sono preordinate. Molti sono largamente distratti, credono ancora che l'aborto legale riguardi pochi casi estremi, che la legge abbia fatto diminuire gli aborti, che i consultori pubblici svolgano una effettiva opera di prevenzione. Identificano ogni richiesta di modificazione con una pretesa di totale abrogazione con la reintegrazione della punizione inflitta ad ogni donna che abortisce, si lasciano suggestionare dal pensiero di un ritorno all'aborto clandestino. In effetti, l'immagine di una giovane donna che è detenuta in carcere perché ha abortito turba moltissimi, anche tra i più fermi nel riconoscere il diritto alla vita del concepito e conseguentemente convinti della gravissima antigiuridicità dell'aborto volontario, quale uccisione del più debole tra tutti gli uomini ad opera di chi – madre, padre, medico – dovrebbe proteggerlo. Sul perché di un tal modo di sentire si potrebbe discutere e indagare a lungo. Quel che è certo è – comunque – che esso è diffuso e che l'idea di affidare esclusivamente o prevalentemente alla minaccia penale in modo generale la difesa della vita nascente frena, in partenza, i propositi di riforma della legge 194.
Si aggiungano le valutazioni politiche. L'aborto è memoria di lacerazione profonda nella società italiana e di una aggressività intollerante e spietata delle correnti veterofemministe e radicali, il cui potenziale ritorno preoccupa e intimidisce. L'operazione, svolta in tutto il mondo, di collegare la liberalizzazione dell'aborto all'emersione della donna come soggetto uguale al maschio in dignità, capacità e diritti, nonostante la sua evidente perversa erroneità, rende timido l'argomentare a favore della vita dei concepiti, al punto che, a livello internazionale, si osa, con crescente arroganza, proporre l'iscrizione del diritto di aborto tra i diritti umani fondamentali[6]. Vi è, poi, il timore di una nuova cocente sconfitta cattolica e di una divisione “cattolica”, così come è avvenuto nei referendum svoltisi nel 1981[7].
Qualcuno teme che il rinnovarsi del dibattito sull'aborto comprometta gli effetti positivi del vittorioso referendum del 2005 sulla procreazione medicalmente assistita (11-12 giugno 2005) e quelli mediatici del successivo “Family day” (12 maggio 2007). Nuovi attacchi contro i “valori non negoziabili”, trent'anni fa appena profetizzati, si sono sviluppati con forza preoccupante: famiglie di fatto, legittimazione del matrimonio omosessuale, eutanasia più o meno mascherata. Fino ad ora, qualcuno potrebbe dire, abbiamo contenuto il “nemico” su questi fronti: non è saggio aprire un nuovo fronte. Meglio stabilire un patto più o meno implicito con le aree politiche dell'indifferenza rispetto alle esigenze dell'antropologia cristiana; come a dire «noi non vi creeremo problemi sull'aborto, ma voi aiutateci a rifiutare “DICO”, “PACS” e forme insidiose di “testamento biologico”». Non è detto, tra l'altro, che possa ripetersi, anche nella legislatura appena iniziata, quell'alleanza tra un centro-destra sostanzialmente compatto e le parti più cristianamente ispirate del centro-sinistra, che ha portato all'approvazione della legge 40 sulla procreazione artificiale. Proprio l'importante successo elettorale del centro-destra rende molto più facile il suo frammentarsi quando non sono in gioco interessi giudicati politicamente decisivi. A sinistra, poi, è evidente la tentazione di mantenere una difficile unità accantonando il più possibile ogni riforma della legge 194. Così, anche coloro che non sono contenti dell'attuale situazione pensano a operazioni che non tocchino la legge 194: si sostiene che occorre limitare ogni iniziativa a livello regionale o a quello amministrativo mediante “Linee guida” riguardanti la sola attuazione della legge, oppure si auspicano esclusivamente interventi economici generalizzati di sostegno alla maternità. In questo quadro, si rafforza la tendenza a considerare poco importante il livello legislativo: più che dalla legge, la vita sarebbe difesa dalla cultura e dalla educazione.

3. Necessità, opportunità e condizioni del cambiamento

Nonostante il quadro ora delineato, l'obiettivo di cambiare la legge 194 è irrinunciabile. Il ruolo della norma giuridica non può essere sottovalutato né per la sua influenza sul modo di pensare della gente, né in ordine alla concreta frequenza degli aborti, né riguardo alla giustizia dell'intero ordinamento giuridico[8]. Il “popolo della vita” non dovrebbe dimenticare la promessa di non rassegnazione tante volte autorevolmente ripetuta. Infine, non bisogna dimenticare le gravi responsabilità dell'Italia verso l'Europa e il mondo per quanto riguarda i “valori non negoziabili”. Le aggressioni contro la vita si moltiplicano: l'obiettivo della legalizzazione dell'aborto sembra più vicino nei Paesi dell'America meridionale e centrale; alcune agenzie dell'ONU lavorano perché l'interruzione di gravidanza sia riconosciuta come diritto umano fondamentale; in Europa l'organo di giustizia comunitario (Corte Europea di giustizia) e del Consiglio d'Europa (Corte Europea dei diritti dell'uomo) hanno già fatto trasparire una loro deriva negativa e pericolose volute ambiguità si trovano nella “Carta di Nizza”, che i trattati di Lisbona rendono giuridicamente vincolante[9].
Nell'ambito mondiale ed Europeo, l'Italia non è di secondaria importanza, né per i concreti poteri che le spettano nella formazione delle norme internazionali né quanto alla composizione degli organi di giustizia. Inoltre, il suo esempio può indicare una strada ai Paesi che già hanno legalizzato l'aborto e può incoraggiare la resistenza di quelli che non lo permettono.
Per tutte queste ragioni, nonostante le difficoltà, un serio tentativo deve essere compiuto.
Proprio la legislatura iniziata presenta opportunità in precedenza inesistenti, che in futuro potrebbero dissolversi. Si possono, ovviamente, avere opinioni diverse sulla “destra” e sulla “sinistra”, ma, realisticamente, finché a “sinistra” non avverrà una decisiva conversione sui “valori non negoziabili”, analoga a quella provocata dalla caduta del muro di Berlino, quanto alla visione complessiva del marxismo, non sarà possibile vedere una forza di positivo cambiamento nell'attuale opposizione parlamentare. Sto parlando, naturalmente, dell'aborto. Ho già detto che nemmeno guardando a “destra” è possibile coltivare troppe illusioni. Tuttavia, sembra possibile coagulare una forte “maggioranza della maggioranza” attorno ad un progetto il cui livello di riforma sia tale da favorire l'aggiungersi di una “minoranza della minoranza” alla “maggioranza della maggioranza”, così da ottenere l'effetto già sperimentato riguardo alla legge 40 sulla procreazione artificiale. Né si devono dimenticare gli impegni assunti dal Presidente Berlusconi in piena campagna elettorale[10]: il riconoscimento del diritto alla vita fin dal concepimento che, a parole, è stato assicurato in sede internazionale, ma è promessa vana se non è seguito da scelte coerenti, non solo nella difesa della legge 40, ma anche in merito all'aborto in Italia. È stato anche promesso ogni sforzo per aiutare le famiglie e le madri a portare a termine le gravidanze e sarebbe incoerente sottovalutare proposte legislative che si muovessero in questa direzione concreta. Naturalmente è facile dimenticare le promesse elettorali: immaginiamo quanto sia difficile portarle a sviluppi coerenti più vasti delle generiche formulazioni? Ma la buona volontà dichiarata può essere sostenuta da un'azione dell'associazionismo cattolico che oggi dispone di strutture unitarie e dichiaratamente impegnate sul piano civile, quali “Forum delle associazioni familiari”, “Scienza e vita”, “Rete in opera”. Il Movimento per la Vita non è solo. Come sempre non basta pensare e scrivere una legge. L'iter legislativo comincia molto prima del dibattito parlamentare. Bisogna creare le condizioni perché quel dibattito si avvii ed abbia esiti positivi. Fondamentale è il ruolo della società e dei mezzi di informazione. Un'unità strategica (attinente, cioè, non solo al fine, ma anche ai mezzi) del cosiddetto “associazionismo cattolico” attorno ad un progetto condiviso è la pre-condizione indispensabile. Essa va costruita con fiducia e pazienza. In questo, gioca un ruolo essenziale l'accettazione del criterio della “gradualità” – che è il contrario del “tutto o nulla” – così come del “compromesso” disposto a negoziare al ribasso. Il paragrafo n.73 dell'Enciclica Evangelium Vitae ci aiuta. Non dovrebbero esserci dubbi sul suo preciso riferimento alla situazione italiana riguardo all'aborto. Il pericolo di un “compromesso” di basso profilo può essere vinto valutando preventivamente la prospettiva non di un bene qualsiasi da raggiungere, ma quella del “massimo bene possibile”, concretamente in una data situazione. Per questo, non mi appaiono risolutive né la strada di affidare alle Regioni il miglioramento della gestione della legge, né quella di chiedere soltanto “linee guida” al Governo, né tantomeno quella di affidarsi esclusivamente a leggi sociali che prospettino vantaggi a chi genera figli. Cose buone, naturalmente, da sostenere, ma insufficienti rispetto alla tragedia dell'aborto di massa, culturalmente accettato e gestito nelle forme di un servizio sociale. Ci vuole ben altro per invertire la tendenza e offrire un esempio al mondo. Queste proposte operano tutte sul piano di una legge che resta ingiusta. D'altra parte, la ripugnanza verso l'idea della “prigione” per l'aborto è così generalizzata da non rendere immaginabile il successo di una iniziativa che riproponesse l'aborto come reato penale in via generale. Ma la questione è tutt'altro che banale. Nell'Evangelium Vitae, l'aspetto più “conturbante e sovversivo” delle attuali aggressioni contro la vita è identificato nella “trasformazione del delitto in diritto”[11].
Pur tenendo conto del n.73 dell'Evangelium Vitae, sembra che la individuazione del “massimo bene possibile” debba cercare una strada intermedia tra il delitto e il diritto e possa trovarla nel concetto di “illecito” o “antigiuridico”. È una strada non ingannatrice, se consideriamo che l'effetto più conturbante e sovversivo è tale perché cambia non solo i fatti, ma anche le coscienze[12]. Né si tratta di una questione accademica senza risvolti sul piano pratico: chi ha esperienza di aiuto alla maternità sa che la principale difesa del figlio sta nella mente e nel cuore della madre. Per questo ho insistito più volte sulla opportunità di stendere un doppio binario per far viaggiare il cambiamento: da un lato la ferma e non equivoca affermazione del diritto alla vita dal concepimento; dall'altro la rinuncia alla sanzione penale generalizzata per l'aborto. La dottrina e la giurisprudenza penale tedesca[13] ci aiutano a superare l'apparente contraddizione con l'idea della “extrema ratio”. La difesa sociale svolta dal diritto penale – affermano le sentenze germaniche - è molto costosa sotto molteplici profili (carceri, personale di custodia, processi, peggioramento della dimensione sociale dei condannati). L'importante è la difesa del bene meritevole di protezione, il mezzo è secondario. La qualità della sanzione non va rapportata alla gravità dell'illecito, ma, piuttosto, alla efficacia maggiore o minore della misura per attuare la difesa sociale. Perciò, alla minaccia penale – concludono – si può rinunciare se vengono trovati altri mezzi più efficaci per contenere l'illecito. La connotazione di antigiuridicità dell'aborto deve restare, ma essa dovrebbe derivare più dalla forte sottolineatura del diritto alla vita violato dall'aborto che non dalla minaccia penale. Del resto, tutti gli ordinamenti conoscono le “norme men che perfette” costituite, cioè, da un precetto spesso molto importante, privo di sanzione. Il solo precetto resta una guida all'azione per i consociati. La situazione della gravidanza – si aggiunge – è una particolarissima, irripetibile condizione che esige strumenti di difesa della vita del figlio non utilizzabili in nessun altro caso, capaci di influire principalmente sulla mente e sul cuore della madre. A me pare che questa dottrina, nella situazione italiana già compromessa da una legge il cui presupposto più ingiusto è l'omissione nell'art. 1 delle parole “diritto alla vita” e “fin dal concepimento”, consente di individuare il “massimo bene possibile” in un cambiamento “possibile”.
Ho già detto che la menzogna e la censura inducono molti a difendere la legge. Di conseguenza il cambiamento è preparato da una accresciuta illuminazione sulla sua realtà normativa e sui suoi effetti. Ho anche accennato all'effetto di consolidamento provocato dalla memoria di lacerazioni sociali e di intolleranze di stampo radicale e femminista. A me pare che si debba gettare uno sguardo di speranza anche su questi aspetti. Segni significativi di ripensamento sono già emersi attraverso la coraggiosa testimonianza di donne che a suo tempo si schierarono a favore della legge 194 o che comunque hanno attraversato l'esperienza dell'aborto. La riforma dovrebbe far sviluppare questi semi proponendosi non solo come servizio ai figli, ma anche alle madri, facendosi accompagnare da linguaggi di accoglienza anche per le donne (sono milioni!) che hanno abortito, facendo intravedere l'entusiasmante disegno di un mondo nuovo, dove la donna continua a camminare verso la dignità, l'uguaglianza e la giustizia, però non da sola, ma tenendo tra le braccia i figli, immagine emblematica di ogni piccolo della terra, insomma, inserendosi nell'idea affascinante di un “nuovo femminismo”[14]. Io penso che la Legge 40 e la famiglia fondata sul matrimonio saranno meglio difesi se il “popolo della vita” prenderà slancio dai “successi” più recenti conseguiti nel referendum del 2005 e con il “Family day” del 2007. Una posizione soltanto difensiva rischia un arretramento. La grande questione “epocale e planetaria” è quella dei diritti umani. Tutto il sistema teorico si regge sull'idea e sulla definizione di “essere umano”. Esso è il chiodo a cui è appeso l'intero quadro. Ogni altro valore non negoziabile, famiglia compresa, suppone che l'uomo, ogni uomo, sia riconosciuto nella sua autonoma insuperabile dignità inerente – esclusivamente – al suo essere partecipe della natura umana. Questa è la posta in gioco. La pretesa di inserire l'aborto nel catalogo dei diritti umani fondamentali manifesta il livello estremo raggiunto dal confronto. La riforma della legge 194, qui ed ora, è un tassello del mondo nuovo da costruire nel terzo millennio.

4. I contenuti di una possibile riforma

Quando trent'anni fa si discuteva della legge in tutto il mondo, le tesi abortiste si dividevano tra i fautori della disciplina “per termini” e quella “per indicazioni”. Per i primi, l'aborto doveva essere depenalizzato fino ad un certo periodo della gestazione; per i secondi, occorreva, invece, descrivere i casi accertati da un organo pubblico in cui fosse lecito abortire in qualsiasi momento della generazione. Come è noto, i due criteri si sono poi variamente combinati nelle varie leggi del mondo. In Italia, la legge 194 consente l'aborto a semplice richiesta della donna nei primi tre mesi, sia pure mascherando la “libera scelta” con le procedure degli artt. 4 e 5. Bisogna concentrare l'intenzione riformista sui primi tre mesi di gravidanza, perché è proprio in questo periodo che avviene di fatto l'aborto (oltre il 97% dei casi, secondo le statistiche ministeriali). Nel timido dibattito fino ad ora svoltosi, le proposte hanno investito, invece, il cosiddetto “aborto terapeutico”, quello, cioè, che interviene dopo il terzo mese e che è disciplinato con il criterio delle “indicazioni”. Talune proposte sono del tutto condivisibili, ma non affrontano il cuore del problema che riguarda l'aborto a richiesta nei primi tre mesi. A prima vista estendere anche a questo periodo la disciplina dell'aborto c.d. “terapeutico”parrebbe un miglioramento. Certamente agli occhi di un giurista attento, l'ipocrisia degli artt. 4 e 5 risulta evidente ed è un pugno nello stomaco leggere che le circostanze economiche, sociali e familiari, giustificano l'aborto per libera scelta in quanto determinanti una malattia psichica che può essere diagnosticata solo dalla donna. Non c'è dubbio, perciò, che la semplice cancellazione di queste parole “circostanze economiche sociali o familiari” vada considerata un miglioramento. Molto periferico, però, se la scelta assoluta resta alla donna. Peraltro mi entusiasma poco anche l'idea di uno Stato che, attraverso i suoi organi, in certi casi autorizzi l'uccisione dei figli e in certi casi no. Dove sta l'uguaglianza? Dove sta il perseguimento del bene comune (che è di tutti e di ciascuno)? Proporrei, almeno, la cancellazione delle circostanze economiche. Sia pure in un sistema di libera scelta, verrebbe introdotto un principio di responsabilizzazione. Ma non basta. Bisogna andare oltre.
Il nocciolo del problema sta nei consultori familiari. La legge 194 vorrebbe apparire come orientata a preferire la nascita all'aborto e gli artt. da 1 a 5 vengono presentati come parte “preventiva”. In realtà, la scelta del medico di fiducia, l'impossibilità giuridica di controllare la sussistenza delle cause dell'aborto, la generica descrizione delle funzioni consultoriali, non accompagnata da una coerente composizione e da adeguati controlli, rendono sostanzialmente, ingannatoria questa parte che non è “buona”, anzi, è assai “cattiva” anch'essa, perché ha svolto la funzione di convincere l'opinione pubblica ad accettare la legge. D'altra parte sembra largamente prevalente anche nell'opinione pubblica la “preferenza per la nascita”. Anche i programmi elettorali, di quasi tutti i partiti, sembrano allineati su questo comune denominatore. Un significativo miglioramento sembra dunque possibile operando proprio su questa parte falsamente ritenuta “preventiva”o addirittura “buona”, in modo da eliminarne ogni equivocità. È piuttosto diffusa l'idea che il passaggio della donna orientata verso l'aborto attraverso un consultorio dovrebbe divenire obbligatorio, eliminando il documento o il certificato rilasciato dal medico di fiducia. Bisogna, però, capire quale dovrebbe essere il ruolo del consultorio. La sua decadenza quanto al ruolo di prevenzione dell'aborto è innegabile. Essa è stata riconosciuta anche dall'indagine parlamentare svolta presso la Commissione affari sociali della Camera sul finire della XV legislatura[15]. Però non sono state individuate bene le cause di tale decadenza. Nelle relazioni ministeriali che si sono succedute negli anni, essa è individuata soltanto nello scarso ricorso delle donne al consultorio, per incentivare il quale si suggerisce che il consultorio funzioni come anticamera dell'intervento: esso dovrebbe prenotare direttamente l'esecuzione dell'interruzione volontaria della gravidanza, riducendo il tempo di attesa. In tal modo, sussisterebbe un incentivo a recarsi presso il consultorio. Così, peraltro, viene esaltata proprio quella funzione negativa del consultorio che ne ha determinato la decadenza. Un'eventuale riforma della legge 194 deve evitare di far cadere la tutela del diritto alla vita “dalla padella alla brace”.
Fino ad ora, la funzione consultoriale è stata intesa prevalentemente nel senso di una garanzia per la libera scelta. Si tratterebbe – nella migliore delle ipotesi – di verificare che la donna non subisca intollerabili pressioni esterne verso l'aborto e che la sua decisione sia veramente matura in modo da evitare possibili dolorosi ripensamenti dopo l'eliminazione del figlio. Si tratta, in sostanza, di un ruolo psicologico, di chiarificazione e di conforto. Al fondo, vi è l'accettazione dell'aborto come conseguenza inevitabile di una gravidanza difficile o non desiderata. Non vi sarebbe alcun modo di evitare l'aborto, una volta determinatosi un solido orientamento in tale direzione. Ne è riprova l'insistenza sulla contraccezione come unico modo di prevenire l'aborto e la verifica dell'efficacia consultoriale attraverso la richiesta alle donne accompagnate verso l'IVG di tornare, una volta effettuato l'intervento, per ricevere indicazioni in merito al metodo contraccettivo più adatto per loro. Questa è la migliore delle ipotesi, perché non mancano casi documentabili in cui i consultori si sono trasformati in luoghi di banale e rapida distribuzione di documenti autorizzativi o addirittura di incentivazione all'aborto. In ogni caso, l'ormai ricca esperienza dei Centri di Aiuto alla Vita prova la falsità dell'assunto che, una volta determinatosi l'orientamento verso l'aborto, non c'è più nulla da fare. Al contrario: molto dipende dall'incontro che la donna fa con la società in cui essa vive, ivi compresa la sua dimensione pubblica e istituzionale.
È indispensabile, dunque, decidere per una diversa funzione del consultorio. Lo Stato che rinuncia a vietare, ma vuole mantenere l'idea della antigiuridicità dell'aborto sia pur affidando la difesa del diritto alla vita del figlio alla coscienza della collettività, in particolare delle famiglie e delle madri, deve considerare il consultorio come lo strumento attraverso il quale esso continua a schierarsi dalla parte del diritto del figlio, non contro le madri, ma insieme ad esse. La funzione essenziale del consultorio dovrebbe essere quello di evitare l'aborto anche nel caso di gravidanza difficile o indesiderata, anche nel caso di un orientamento consolidato vero l'IVG. Esso dovrebbe essere strumento alternativo all'aborto, chiaramente percepito come tale, luogo di aiuto e di accompagnamento alla nascita, non di accompagnamento all'IVG. Questa funzione può essere svolta solo da strutture completamente diverse dalle attuali, per competenze, inquadramento e controlli. In passato, alcune voci hanno chiesto la presenza degli obiettori di coscienza nei consultori e/o la separazione tra il momento “dissuasivo” e quello “autorizzativo”. Io stesso ho sostenuto queste istanze, ma esse non dissolvono l'equivoco di fondo. In realtà, a norma della legge 194, gli obiettori non sono affatto esclusi dalla partecipazione ai consultori. L'affermarsi nella pratica della loro incompatibilità con il colloquio consultoriale è una spia del degrado contro il quale urge reagire. Nella legge, tra l'altro, non c'è scritto che il medico del consultorio deve rilasciare il documento che autorizza l'IVG. Sotto questo profilo, gli artt. 4 e 5 descrivono un identico trattamento per il medico di fiducia, per quello della struttura socio-sanitaria e per quello del consultorio, né una qualche distinzione è introdotta dall'art. 9 quanto all'obiezione di coscienza. Perciò non dovrebbe sussistere alcuna difficoltà se, in un consultorio, il medico obiettore non “autorizza” l'aborto, tanto più se venisse valorizzato quanto nella legge è pur indicato come compito prioritario del consultorio: l'offerta di alternative all'IVG (art. 2, lettera d). Solo per gli ospedali, non per i consultori, la legge 194 prevede l'obbligo di garantire il servizio di IVG anche mediante la mobilità del personale (art. 9/ 4° comma). Ma una interpretazione perversa della legge ha ormai quasi generalmente imposto la logica della garanzia per la libertà di scelta. Quanto alla separazione tra “colloquio” e “autorizzazione”, è innegabile che in una situazione come quella attuale, così ingiusta, essa potrebbe migliorare qualcosa. Ma non è particolarmente limpida la soluzione per la quale, esaurito il colloquio, la persona che l'ha condotto dice alla donna: «Non sono riuscito a convincerla. Adesso verrà al posto mio il medico che le rilascerà il documento per abortire». Oppure: «Signora, nella stanza accanto potrà ora ricevere l'autorizzazione ad effettuare la IVG». Vi è una qualche ipocrisia e, probabilmente, anche qualche scorrettezza etica.
Nel cambiamento qui prospettato, invece, il ruolo del personale consultoriale è centrale. Esso deve essere selezionato in coerenza con la funzione ad esso affidata. Come ha scritto la Corte Costituzionale tedesca «la consulenza è finalizzata alla salvaguardia della vita, da realizzarsi attraverso il consiglio e l'aiuto in favore della gestante alla luce del sommo bene della vita (...) le operatrici e gli operatori devono lasciarsi guidare dallo sforzo teso ad incoraggiare la gestante alla prosecuzione della sua gravidanza e a dischiudere ad essa prospettive per una vita insieme al figlio». Di conseguenza, lo Stato deve affidare il compito di sostegno alla donna «solo a quegli istituti di consulenza che, in ragione dell'organizzazione che li caratterizza, in forza del loro atteggiamento di fondo nei confronti della tutela della vita prima della nascita e in rapporto al personale operante presso di loro, offrano la garanzia di fatto che la consulenza avvenga secondo le indicazioni impartite a livello costituzionale e dalla legge»[16].
Questa indicazione è totalmente condivisibile. In un consultorio inequivocamente alternativo alla IVG, proprio degli obiettori dovrebbero trovare il più grande spazio, ma, in realtà, non avrebbe senso la distinzione tra obiettori e non obiettori perché tutta l'attività consultoriale sarebbe estranea all'iter causale che conduce alla soppressione del figlio. La Corte tedesca individua la “garanzia” che questo avvenga davvero nel personale e nell'organizzazione. Attualmente, i nostri consultori familiari sono inquadrati nell'ambito sanitario, il che già manifesta dimenticanza per il diritto alla vita del figlio e l'esclusiva attenzione alla “salute” della madre. Se al consultorio viene affidata, invece, la funzione di proteggere in modo nuovo il più fondamentale tra i diritti umani, è da chiedersi se non sia preferibile un inquadramento diverso. Se anche il concepito è un “minore”[17], allora ad una qualche forma di sorveglianza e controllo, almeno per quanto riguarda l'attività di prevenzione dell'aborto, dovrebbero partecipare anche le autorità preposte alla tutela dei minori, come i Tribunali per i minorenni o i giudici tutelari – ovvero le strutture centrali dello Stato alle quali sono affidate le problematiche familiari. Esclusa ogni sanzione penale o extrapenale per l'esecuzione dell'aborto, la cui antigiuridicità resterebbe sottolineata da una formale indicazione del diritto alla vita fin dal concepimento, il precetto di aiutare la vita a nascere, gravante sui consultori, potrebbe ricevere garanzia di attuazione dalle norme di controllo sulla loro attività. Ciò significa che, magari in forma anonima, le cause dell'orientamento verso l'aborto dichiarate dalla donna, così come gli interventi effettuati dal consultorio dovrebbero lasciare una traccia scritta. Oltre che ai necessari eventuali controlli, ciò sarebbe quanto mai utile ai fini della relazione annuale con la quale il ministro informa ogni anno il Parlamento sulla sua attuazione della legge “anche in ordine alla prevenzione”.
Ma dobbiamo ora affrontare un nodo delicato e, a mio giudizio, decisivo. Effettivamente, un consultorio, così diversamente pensato e strutturato, dovrebbe divenire un luogo di passaggio obbligatorio per la gestante che vuole abortire, con l'abolizione della facoltà autorizzativa oggi attribuita anche al medico di fiducia e a quello della struttura sociosanitaria. La facoltà di abortire, impunemente attribuita alla donna, dovrebbe essere accompagnata dall'imposizione a lei dell'onere di esperire un preventivo serio tentativo di “farsi aiutare” a non abortire. Lo Stato direbbe: «Se non vai al consultorio non ti consento di interrompere la gravidanza». Ma una tale regola introduce l'attività consultoriale nell'iter causale che conduce all'aborto. Se alla fine dell'incontro e magari di ripetuti tentativi di aiuto, il consultorio rilascia un attestato che deve essere presentato all'ospedale per eseguire l'intervento e se, dunque, tale attestato è indispensabile condizione necessaria per attuare il proposito di eliminare il figlio, è difficile escludere il concorso di chi rilascia il documento nell'azione uccisiva, nonostante una diversa intenzione dell'agente.
Si pone, cioè, lo stesso problema dibattuto fin dalla approvazione della legge 194 riguardo al medico di fiducia o del consultorio, che, in attuazione dell'art. 5, rilascia il “documento attestante lo stato di gravidanza”, ovvero il “certificato d'urgenza”[18]. Tanto il rilascio di questi attestati costituisce un concorso all'IVG che la stessa legge prevede l'obiezione di coscienza, non solo in riferimento all'intervento, ma anche riguardo alle “procedure” di cui all'art. 5, con la conseguente decadenza dall'obiezione se l'obiettore prende parte ad esse. Non è il caso, in questa sede, di addentrarsi in questo problema, che riferito al passato e ad oggi, è soltanto di etica individuale[19]. La questione diviene peraltro politica nella prospettiva di riforma qui delineata. Infatti, un consultorio, costruito come reale alternativa all'aborto, ha bisogno dell'apporto degli obiettori e d'altra parte il progetto di riforma non inizia a camminare se non è sostenuto unitariamente almeno dai cattolici, senza lacerazioni tra di loro. Orbene, non abbiamo bisogno di disquisizioni teoriche. A mio modo di vedere, è decisiva l'esperienza tedesca. In Germania, la legge del 1995 ha largamente tradito le indicazioni precedenti della Corte Costituzionale, ma ha, comun­que, attribuito ai consultori una funzione seria di prevenzione. Esiste in Germania una rete di consultori familiari cattolici assai efficiente e si è posto subito il problema di un loro possibile inserimento nel percorso previsto dalla legge tra la domanda di aborto e l'esecuzione della IVG. Il collegamento è dato dal rilascio di un documento attestante la compiuta attività consultoriale. All'interno della conferenza episcopale tedesca, e tra questa e la Santa sede, vi è stato un lungo e non facile confronto. Giovanni Paolo II è intervenuto personalmente per tre volte: scrivendo ai vescovi germanici ha imposto la linea di pensiero secondo cui non ha alcuna importanza il contenuto del documento, ma è decisivo, invece, l'effetto che esso determina. Anche se vi fosse scritto un trattato contro l'aborto, ma il documento restasse indispensabile per abortire, il giudizio etico su di esso non potrebbe che essere negativo. Non conta il desiderio di chi rilascia l'attestato: egli sa che quel foglio potrà servire ad uccidere un uomo; dunque, sottoscrivendolo, accetta questa conseguenza rendendosene suo malgrado complice[20].
Condivido questa posizione sia per la mia formazione giuridica, che mi fa ricordare la concezione del rapporto di causalità come definito dalla teoria della “condicio sine qua non” e il concetto di “dolo eventuale”, sia perché ritengo che si debba ragionare circa il bambino non ancora nato nello stesso modo in cui ragioniamo attorno all'uomo già nato. Ma non ha molta importanza la discutibilità di questa posizione. È un fatto che nessuna riforma consultoriale è seriamente immaginabile in Italia, se non viene evitato lo scoglio emerso in Germania.
A me pare di aver già indicato la strada che concilia l'idea del consultorio come strumento non equivoco, mediante il quale “lo Stato che rinuncia a vietare non rinuncia a difendere”, con quella del passaggio obbligatorio dal consultorio della donna prendendo ispirazione dall'esperienza dei casi più significativi incontrati dai Centri di Aiuto alla Vita (CAV). Capita, talora, che la prospettiva di un aborto di prossima esecuzione è segnalata da una persona diversa dalla donna incinta come un familiare o un'amica. In queste situazioni, è il CAV che prende l'iniziativa di mettersi a disposizione della donna, ovviamente nelle forme più rispettose e cortesi. L'esperienza dimostra che l'intervento è gradito, consente lo stabilirsi di un dialogo e, in rilevante percentuale, esita nella prosecuzione della gravidanza con soddisfazione della madre. Questa esperienza suggerisce una metodologia che consente ancora l'intervento dei consultori, senza, però, che essi apportino un qualsiasi contributo causale verso l'aborto.
Oggi la donna si rivolge al consultorio per ottenere il “foglio” da presentare all'ospedale per eseguire l'aborto; mentre, una riforma seria dovrebbe chiedere alla donna di rivolgersi al consultorio per verificare la possibilità di evitarlo. Un tale sistema dovrebbe imporre al medico che programma l'aborto il duplice dovere di invitare la donna a recarsi al consultorio di zona (o altro centro convenzionato) e informare il consultorio medesimo dell'aborto richiesto, in modo che sia possibile un contatto con la donna, anche per iniziativa degli operatori consultoriali. Mai, peraltro, il consultorio potrebbe rilasciare il documento che costituisce “titolo” per l'esecuzione dell'IVG. L'intervento abortivo potrebbe avvenire ugualmente a richiesta della donna, ma le istituzioni avrebbero fatto tutto il possibile per evitarlo. In sintesi, la riforma dovrebbe prevedere da un lato un obbligo di informazione al consultorio da parte degli ospedali in cui l'aborto è richiesto; dall'altro, un potere di iniziativa del consultorio, che non dovrebbe limitarsi ad attendere che la gestante bussi alla sua porta e con esclusione, comunque, del potere autorizzativo oggi attribuito al medico di fiducia.
Insisto molto sulla riforma consultoriale perché mi pare difficile ma possibile. Essa presenta, inoltre, il vantaggio di proporre in prima battuta il riesame della legge 405 del 1975 sui consultori familiari e solo di rimbalzo gli artt. 4 e 5 della legge 194; ciò potrebbe vincere una parte della pregiudiziale resistenza. Tutto si lega alla coerenza con il riconoscimento del diritto alla vita fin dal concepimento, la cui formulazione legislativa è pertanto indispensabile affinché la riforma proposta non risulti inutile. Il diffondersi delle nuove forme di aborto chimico con la pillola RU486 e con la “pillola del giorno dopo” renderà sempre più privato e incontrollabile l'atto con cui una donna distrugge il proprio figlio. Perciò sempre più diverrà necessario affidare il diritto alla vita del concepito al coraggio, all'accoglienza, ultimamente alla coscienza delle madri. Ma, poiché il bambino resta bambino nonostante tutto, tale coscienza non è soltanto un segreto problema individuale. La forte indicazione del valore da perseguire diviene problema politico centrale. Il diritto non può abdicare alla sua funzione di essere “guida all'azione” quando i tradizionali strumenti coercitivi non risultano applicabili.
In conclusione, questa proposta (riconoscimento formale del diritto alla vita sin dal concepimento e nuovi consultori esclusivamente destinati alla difesa di tale diritto) non mi pare modesta, sia pure in una logica di gradualità.
Naturalmente, si possono e si debbono suggerire altri significativi ritocchi. L'eliminazione almeno delle cause economiche dall'art. 4 avrebbe un effetto positivo di responsabilizzazione sia delle famiglie che della società; l'obbligatorio riscontro diagnostico ad aborto eseguito e l'obbligatorio ricorso a competenze mediche specialistiche nella diagnosi dei processi patologici che lo permettono (l'art. 6 e l'art. 7) oltre il terzo mese eviterebbero frodi e superficialità; l'estensione dell'intervento consultoriale anche al cosiddetto “aborto terapeutico” renderebbe più coerente un sistema in cui la preferenza per la nascita deve essere prospettiva costante; l'eliminazione del potere assoluto della madre di escludere il padre dalle decisioni sulla vita e sulla morte del figlio renderebbe un po' di giustizia a chi ha il dovere costituzionale (art. 30 Cost.), così come la madre, di mantenere i figli; la semplificazione della obiezione di coscienza garantirebbe meglio la libertà degli operatori sanitari. Ma il cuore dell'ingiustizia da rimuovere è il potere di vita o di morte sul figlio. È l'idea della scelta, ossia la falsificazione della libertà. Vi siano, almeno, l'indicazione del bene da perseguire e la predisposizione di efficaci strumenti di solidarietà per raggiungerlo.


Note

[1] Ricordo a modo di esempio: C.Casini, Amarezza ma non resa, in “La Nazione”, 26 giugno 1978; C.Casini, Proposte per un impegno contro la legge sull'aborto, in “Prospettive nel mondo”, nn.39-40, 1979, pp.1-12; C.Casini, Una strategia culturale, in “Studi cattolici”, nn.245-246, luglio-agosto 1981, pp.431-435; C.Casini, Proposte alcune modifiche alla legge sull'aborto, in “Sì alla vita”, n. 9, 1983, pp.1-2; C. Casini, Il diritto alla vita all'origine dell'esistenza umana, in “Studi cattolici”, n.292, 1985, pp.323-336; C.Casini, Aborto: è possibile cambiare la legge, in “Studi cattolici”, n. 297, 1985, pp.664-670; C.Casini, La gestione è cattiva perché è cattiva la legge, in “Sì alla vita”, n.12, dicembre 1985, p.2; C.Casini, Aborto: la legge va cambiata, in “Presenza politica”, n.1-2, gennaio 1986, pp.11–14; C.Casini, La centralità politica del diritto alla vita, in “Studi cattolici”, n.372, febbraio 1992, pp.100-110; C.Casini, Il principio di non discriminazione, in “Cultura e libri”, n.90, gennaio-febbraio 1994, pp.33-44; C.Casini, Prospettive di riforma dell'attuale legislazione sull'aborto. Il dibattito italiano ed europeo, in “Incontro”, n.5, settembre-ottobre 194, pp.I-XX; C.Casini, Legge 194. Cosa ci riserva il futuro, in “Avvenire”, 28 gennaio 1996; C.Casini, Quella neutralità della 194, in “Il popolo”, 27 febbraio 1996; C.Casini, Le riforme possibili, in “Sì alla vita”, marzo 2000, p.13; C.Casini, Legge 194. Ecco come cambiare, in “Avvenire”, 6 dicembre 2007.
[2] C. Casini, A trent'anni dalla Legge 194 sull'interruzione volontaria della gravidanza, Cantagalli, Siena, 2008.
[3] Oltre agli scritti indicati alla nota n.1, mi permetto di aggiungere: C.Casini, F.Cieri, La nuova disciplina dell'aborto, Cedam, Padova, 1978; C.Casini, Quattro bambini su dieci non vedono la luce, in “Prospettive nel mondo”, n.107, 1985, pp.3-12; C.Casini, La presenza dei volontari del MPV nei consultori. Il diritto di esserci, in “Aris Sanità”, nn. 4-5, settembre-dicembre 2005, pp.8-11; C.Casini, La moratoria sull'aborto. Quali riforme?, in “Studi Cattolici”, 2008, pp.93-100; C.Casini, Contro la legge 194 la rivolta dei fatti, in “Avvenire”, 3 aprile 2008, p. 14;
[4] La portata epocale e planetaria dell'aborto emerge con grande lucidità nell' Enciclica Evangelium vitae di Giovanni Paolo II, laddove, per esempio, si legge: «si può, in certo senso, parlare di una guerra dei potenti contro i deboli: la vita che richiederebbe più accoglienza, amore e cura è ritenuta inutile, o è considerata come un peso insopportabile e, quindi, è rifiutata in molte maniere. Chi, con la sua malattia, con il suo handicap o, molto più semplicemente, con la stessa sua presenza mette in discussione il benessere o le abitudini di vita di quanti sono più avvantaggiati, tende ad essere visto come un nemico da cui difendersi o da eliminare. Si scatena così una specie di “congiura contro la vita”. Essa non coinvolge solo le singole persone nei loro rapporti individuali, familiari o di gruppo, ma va ben oltre, sino ad intaccare e stravolgere, a livello mondiale, i rapporti tra i popoli e gli Stati (...). Di fronte alla sovrappopolazione dei Paesi poveri mancano, a livello internazionale, interventi globali – serie politiche familiari e sociali, programmi di crescita culturale e di giusta produzione e distribuzione delle risorse – mentre si continua a mettere in atto politiche antinataliste (...). Al di là delle intenzioni, che possono essere varie e magari assumere forme suadenti persino in nome della solidarietà, siamo in realtà di fronte a una oggettiva “congiura contro la vita” che vede implicate anche istituzioni internazionali, impegnate a incoraggiare e programmare vere e proprie campagne per diffondere la contraccezione, la sterilizzazione e l'aborto. Non si può, infine, negare che i mass media sono spesso complici di questa congiura, accreditando nell'opinione pubblica quella cultura che presenta il ricorso alla contraccezione, alla sterilizzazione, all'aborto e alla stessa eutanasia come segno di progresso e conquista di libertà, mentre dipinge come nemiche della libertà e del progresso le posizioni incondizionatamente a favore della vita».
[5] Si tratta dell'intervento pronunciato il 17 aprile 1978 durante la replica finale sulla legge 194 alla Camera dei Deputati.
[6] Nelle varie conferenze internazionali promosse dall'ONU, la dura dimenticanza del concepito è stata all'origine del tentativo di inserire l'interruzione della gravidanza nell'ambito del “diritto di autodeterminazione” delle donne e quindi tra i diritti umani fondamentali.
[7] In effetti, vi è chi attribuisce al referendum, promosso dal Movimento per la Vita, l'effetto negativo di un consolidamento della legge. A prima vista sembra difficile contrastare questa tesi. La legge era passata dopo un iter assai contrastato (si veda su questo il mio “A trent'anni dalla legge 194 sull'interruzione volontaria della gravidanza”, op.cit., pp.13-32) con pochi voti di maggioranza, mentre nel referendum i contrari alla riforma (...) furono largamente maggioritari. Tuttavia, ancora oggi, quel referendum mi appare inevitabile ed anzi mi pare di constatare, con il passare del tempo, quel benefico effetto di “ricominciamento” e di “ricomposizione” che ho delineato nel saggio “La ricomposizione dell'area cattolica dopo il referendum sull'aborto” (Editoriale LCA, Milano, 1981), ripubblicato previa integrazione nel 2001 con il titolo: “Diritto alla vita e ricomposizione civile. 1981: referendum sull'aborto. Riflessioni e proposte per il tempo presente”, Ares, Milano.
[8] Mi permetto di rinviare a: C.Casini, Appello al diritto, Cantagalli, Siena, 2003.
[9] La “Carta di Nizza”, ufficialmente denominata Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea.
[10] In una lettera, pubblicata in “Sì alla vita” (n.5, maggio 2008, p.27), rispondendo ad un pubblico appello del Movimento per la Vita, l'attuale Presidente del Consiglio, pur confermando la libertà di coscienza dei parlamentari e l'intento di “applicare la legge 194 in tutte le sue parti, non di modificarla”, ha scritto: «La prima, ma anche la più disattesa, finalità della 194 è l'aiuto alla vita. Una finalità che vogliamo condividere dando concrete possibilità alle madri, anche nelle condizioni più difficili, di far nascere un bambino, con la certezza che qualcuno poi si prenderà cura di entrambi. Con questa determinazione, Le posso dire anche che non intendiamo assolutamente modificare la legge 40 sulla procreazione assistita. Infine, ma certamente non ultima, la moratoria sull'aborto. Credo che riconoscere il diritto alla vita “dal concepimento alla morte naturale” sia un principio che l'ONU può fare proprio, così come ha fatto sulla moratoria per la pena di morte, pur dopo un lungo e non facile dibattito».
[11] Giovanni Paolo II, Lettera enciclica “Evangelium Vitae” sul valore e l'inviolabilità della vita umana, 25/3/1995, AAS 87, n.11.Evangelium Vitae, n.11
[12] Ibidem.
[13] Il riferimento principale è alle sentenze del 25 febbraio 1975; 4 agosto 1992; 28 maggio 1993.
[14] Vedi in particolare, il discorso rivolto da Giovanni Paolo II al Direttivo del MpV il 22 maggio 2003, in “Sì alla vita” n.6 del giugno 2003. Vedi anche E.V. n.99.
[15] Ampi stralci del testo sono pubblicati in “Sì alla vita”, n.2, febbraio 2006, pp.29-32.
[16] Corte Costituzionale tedesca, sentenza del 28 maggio 1993, motivazioni, sez. E, parte II, 1, a), aa). Sulla vicenda costituzionale tedesca riguardo all'aborto, si veda in particolare M.Casini, Il diritto alla vita del concepito nella giurisprudenza europea. Le decisioni delle corti costituzionali e degli organi di giustizia, Cedam, Padova, 2001, pp.37-83.
[17] Indicazioni in questo senso vengono dalla Convenzione Universale dei diritti dei fanciulli del 20 novembre 1989, così come interpretata nelle sentenze costituzionali italiana del 19.2.97 (n° 35) e polacca del 5.5.97. Vedi il commento in M.Casini, op.cit.
[18] Su questo punto si veda: Aa.Vv, Obiezione di coscienza, un dovere verso l'uomo, Atti del convegno nazionale svoltosi a Torino nei giorni 26 e 27 novembre 1983. La questione è affrontata in modo specifico nel volume (in corso di stampa): M.L.Di Pietro, C.Casini, M.Casini, Obiezione di coscienza in sanità. Vademecum, Cantagalli, Siena 2008.
[19] Già all'indomani della legge 194 la Regione Veneto emanò una circolare (n.5) nella quale si stabiliva la possibilità degli obiettori di coscienza di partecipare alle procedure di cui all'art. 5 della legge 194 e la questione suscitò interventi rilevanti su “L'Osservatore Romano” ed ebbe un riferimento nella istruzione emanata dalla Conferenza Episcopale Italiana l'8 dicembre 1978.