Alla ricerca di una meta-bioetica. I problemi della cosiddetta confessionalità
Luca M. Bucci
Già nell'ottobre del 1999 Albert Jonsen, uno dei protagonisti dell'istituzionalizzazione della bioetica negli Stati Uniti e autore di una delle migliori storie della bioetica (The birth of bioethics, Oxford University Press, 1998), teneva una conferenza all'American Society for Bioethics and the Humanities provocatoriamente intitolata «Why has bioethics become so boring?» (Perché la bioetica è diventata così noiosa?).
La tesi di Jonsen era che la bioetica avrebbe smarrito gli stimoli intellettuali e il coraggio morale delle prime battaglie contro il paternalismo medico e in difesa del riconoscimento dell'autonomia decisionale dei pazienti; ovvero si sarebbe troppo addomesticata, diventando una disciplina autoreferenziale e concentrata sulla realtà locale (ovviamente egli si riferiva agli Stati Uniti, ma credo sia difficile negare che lo stesso fenomeno stia accadendo un po' ovunque).
Jonsen invitava i bioeticisti a esplorare al di fuori -in senso disciplinare e geografico- delle dimensioni etico-politiche, economico-sociali e giuridiche in cui sembrano ormai racchiudersi un po' provincialisticamente, tutti i problemi della bioetica. Per esempio, rivolgendo maggiore attenzione agli sviluppi degli studi evoluzionistici ed ecologici e lavorando sulla base di un'idea di etica più calata nella realtà delle scienze empiriche della vita. Jonsen, tra l'altro, ha proposto il termine neuroetica per definire sia i problemi morali peculiari delle neuroscienze sia la ricerca sulle basi neurobiologiche dell'agire morale.
Certo, il confronto bioetico in Italia corre davvero un rischio, anzi sembra ineluttabilmente destinato a rimanere noioso (nel senso che dice Jonsen, almeno) ancora per molto tempo. Il motivo consiste nel fatto che si pensa, a moltissimi livelli e persino talvolta in sede accademica, che la bioetica sia e debba essere confessionale, e nel senso deteriore del termine; ovvero equivalente al termine fondamentalista, e prova ne è che essa alimenta forme di vero e proprio terrorismo più o meno strisciante. Forse già il fatto che le cattedre di bioetica non si sviluppino in Italia (e forse anche in Europa), come invece è avvenuto negli Stati Uniti, è segno di questo malessere: prevalgono veti incrociati pregiudiziali, piuttosto che lo sviluppo del pensiero e della disciplina.
Uno degli aspetti positivi della situazione, almeno italiana, è che la bioetica cattolica, almeno la più avveduta, non si è mai neppure sognata di poter intraprendere una bioetica confessionale; o meglio, ha sempre distinto una bioetica ad intra da un bioetica ad extra; ma non nel senso che si dovessero dire cose diverse a seconda dell'interlocutore, bensì nel senso di trovare seriamente un linguaggio comune. In sostanza, individuare un mezzo di comunicazione appunto comune, che poteva essere una buona filosofia là dove c'era, una riflessione avveduta sul puro dato scientifico, là dove esso era di comune conoscenza, eventualmente un luogo teologico là dove vi era la possibilità di una comprensione su questo piano. Trovare un linguaggio comune, un senso comune, insomma un logos, se possiamo e vogliamo esprimerci con la pregnanza di significato che il neurofisiopatologo di origini ebraiche, prof. Victor Frankl, attribuisce al termine mediato dal linguaggio greco, ricalcando un'antropologia di chiaro stampo giudaico.
Il fondamentalismo che proviene da alcuni ambienti laicisti, o quello eventuale di sacche religiose settarie ugualmente fondamentaliste nell'ambito della bioetica, non cercano un senso, non cercano una meta-bioetica, possibilmente si esimono persino dalle conoscenze scientifiche che riguardano per esempio le neuroscienze[1], oppure l'embriologia morfo-funzionale e morfo-genetica[2]. Piuttosto si fermano a principi apoditticamente affermati (alla maniera dell'ipse dixit) e tutto cercano di uniformare ad essi. Tali principi sono solitamente: i diritti dell'individuo, il principio di autonomia, la difesa del soggetto, il bene sociale, e molti altri ancora che ognuno di noi può facilmente enumerare perché ormai sono sulla bocca di tutti e costituiscono dei veri e propri luoghi comuni: quando la cultura procede a forza di luoghi comuni, si sa, è lettera morta.
Quanto è noiosa questa bioetica! La ricerca di un senso dell'operato umano, l'intenzionalità dell'agire, l'epistemologia della legge morale, come la biochimica macromolecolare, scoperta dalle neuroscienze, interagisca con la conoscenza della legge naturale, la consapevolezza di sé, l'apprendimento e la coscienza, sembrano problemi completamente banditi dal dibattito della bioetica, a favore di una tirannia di quei su menzionati principi che, come profeticamente prevedeva Guardini, non faranno che alimentare il nuovo stato totalitario: «Dal punto di vista etico ciò si esprime nell'illegittimità per noi degli atti che, compiuti su queste persone, sono in contraddizione col carattere di persona: noi dobbiamo rispettarle, anche quando esse non sanno farsi valere, ed anzi, le dobbiamo rispettare in certo modo proprio in quanto sono inermi: in questo contesto, essere uomini significa, nella solidarietà con la comunità umana, associarsi nel rappresentare gl'incapaci; proprio mediante questo atto, si garantisce, come al caso limite dell'esistenza umana, il carattere di persona in generale. Lo Stato totalitario rinnega anche questo atteggiamento e uccide i minorati mentali e i malati incurabili (ovvero tutta la vita che può essere manipolata, n. d. a.); in verità tutto questo è un assassinio e, quel che è ancor peggio, un assassinio giustificato da una teoria, quella della vita che non è degna di essere vissuta. Lo Stato totalitario dichiara possibile e quel che è peggio se stesso capace di giudicare se un uomo ha diritto di esistere, ma non esiste questo diritto: è possibile esprimere un giudizio sulle qualità, le azioni, le prestazioni dell'uomo, ma non sulla sua esistenza in quanto tale, perché quest'ultima possiede una dignità personale e come tale si sottrae al giudizio (
). Il principio centrale della teoria totalitaria è invece manifesto e dice: l'uomo non è persona, non ha un valore incondizionato, che derivi dall'essere uomo come tale; è semplicemente un individuo biopsichico; di conseguenza, i criteri da tenere nei suoi confronti sono quelli della prestazione che può dare per lo Stato, la società, l'economia e la cultura. Questa affermazione è falsa, e la conseguenza di questa concezione è palese: consegna per principio l'uomo nelle mani del potere. In verità il carattere di persona è indipendente da tali criteri; è l'essere uomo in quanto tale, e pertanto ha qualcosa di categorico che lo sottrae ad ogni diritto di una istanza di potere. (
) Solo in questo modo la persona si difende dal potere del singolo, delle istanze economiche e sociali, dello Stato (
) Senza il contrappeso del carattere di persona proprio di ogni uomo e della sua intangibilità, le strutture del potere sono destinate alla rovina di per se stesse; se rettamente intese, gli ammalati, i minorati, gli sprovveduti, i deboli, gl'indifesi, i piccoli, sono i difensori dei sani e li custodiscono dall'hybris e dalla crudeltà, possibilità sempre presenti in chi è sano e forte»[3].
La citazione è un po' lunga, ne ho omesso qualche parte, ma ridurla ulteriormente, ne avrebbe tradito la profonda verità. Certo queste parole toccano troppo da vicino le corde della nostra libertà e della nostra umanità per poterle fare liberamente suonare; questa sinfonia può mettere in crisi quelle sicurezze che ad alcuni sembra di aver acquisito per l'eternità.
In genere, la bioetica che nasce in ambito cattolico, o protestante, o anche giudaico riconosce a monte una forte e consistente tradizione filosofica (l'autore citato italo-tedesco non ne è che un esempio). Per questo motivo tali tradizioni filosofiche non indulgono facilmente a forme di fondamentalismo, nonostante a volte ne siano ingiustamente accusate, proprio da chi, semmai, non ha un analogo background culturale. Il problema nasce dal fatto che il pensiero laico liberale ha perso anche le sue radici filosofiche, che vanno cercate per esempio in Locke (di famiglia cristiano puritana), il quale credeva nel giusnaturalismo, mentre gli attuali esponenti del cosiddetto pensiero laico liberale non credono più alla legge naturale. Oppure in Kant (cristiano riformato), che distingue il fine dai mezzi, mentre per il pensiero laico attuale questa distinzione appare fittizia, e quel che conta è l'individuo (meglio, alcuni individui), neppure più la sua intenzione: la lezione di Husserl non l'hanno ascoltata o non la vogliono ascoltare. Qualche volta (quando va bene) citano Jonas (ebreo), perché li tocca quel principio di responsabilità (rilevante a proposito del consenso politico), ma non ne colgono il lato più affascinante, ovvero il profondo senso antropologico che l'autore mostra quando parla di DNA come forma materiale dell'imago Dei, quando cita il Talmud ed altre interpretazioni bibliche che rivelano la sua profonda matrice filosofica giudaica. Magari il liberalismo laico ricordasse un po' di più i suoi padri del pensiero; anche solo Bentham e Stuart Mill, il cui utilitarismo è comunque eticamente avveduto, a proposito del danno altrui! Si accorgerebbe, tale laicismo attuale, ma non so se si possa neppure più chiamare così, che la scienza e la tecnica non sono buone o cattive in se stesse, ma è l'uomo che ne determina la tonalità morale; che non si può parlare di libertà della scienza, perché la scienza non è una bella o brutta signora, ma semmai bisognerà considerare o creare la coscienza della libertà responsabile dello scienziato/a.
Del resto già da Spinosa (Tractatus teologico-politicus del 1670) attraverso Mendeelsohn fino a Bergson (Deux sources de la morale et de la religion, del 1932), l'ebraismo liberale ha sostenuto una sorta di religione universale che annulla e supera tutte le strettoie e le limitatezze nazionali. Dalla Ragionevolezza del cristianesimo di John Locke (1695), in cui egli inaugura la prova antropologica di Dio (lo spirito non può avere alla sua origine che lo spirito), la strada[4] alla caduta del muro tra laicismo e religiosità, tra ragione e fede, col relativo rispetto dell'uomo, di tutto l'uomo e di tutti gli uomini che tale riflessione comporta, era già stata aperta. Ma c'è, ahimè, chi continua inesorabilmente a volerla chiudere, solitamente ai fini di uno screditamento di alcuni a vantaggio di altri, e/o di una strumentalizzazione politica e demagogica della idee.
Eppure dovrebbe esser chiara a tutti ormai la lezione di Emmanuel Levinas: per questo grande pensatore, come per quasi tutti i filosofi contemporanei, l'etica non è fatta solo di regole o direttive, ma anche di attenzione alle realtà umane, specialmente alle azioni e alla responsabilità di ogni essere libero. Il suo messaggio etico potrebbe essere riassunto nel riconoscimento della dignità umana che si rende manifesta nel volto vulnerabile dell'essere umano, specialmente delle persone più indifese (le vedove, gli orfani e gli stranieri, ma dunque anche i malati, i moribondi, i deficienti, gli embrioni), di fronte al quale non si può esercitare né potere, né violenza. È un'etica universale poiché porsi di fronte all'altro è un'esperienza umana che non dipende da alcuna cultura o forma sociale; è semplicemente propria dell'essere umano. Un motivo di speranza dunque, per il recupero di questa tipologia di pensiero, non lo perdiamo. Infatti, se è vero, come è ormai documentato e risaputo[5], che esistono, come c'insegna la genetica e la neuro-biologia, 10.000 sinapsi per 100 miliardi di neuroni, e dunque un milione di miliardi di sinapsi a disposizione per una plasmabilità del SNC; se è vero che è necessario ammettere una componente casuale (ovvero genetica), nello stabilizzarsi iniziale di un sistema nervoso centrale; se sicuramente bisogna ammettere una componente ambientale e comportamentale che dunque coinvolge le libertà altrui e di tutti, proprio di tutti i nostri simili, compresi i deboli, i deficienti, e anche gli embrioni le cui cellule sono già sulla strada del non ritorno per diventare cellule nervose specializzate, senza soluzioni di continuo tra queste e quelle; se esse potranno (se glielo permetteremo) diventare quel substrato corporeo capace di suscitare libertà, volontà, intelletto agente, ragion pratica, conoscenza della legge naturale e morale; se tutto questo, come sembra, è vero, allora forse anche i fondamentalisti della bioetica, di qualunque provenienza essi siano, potranno cambiare idea, anzi, magari cominciare ad avere idee, data la plasmabilità del SNC di chiunque. Ma c'è molto, molto da lavorare sul piano pedagogico, perché il cervello umano (la vita umana) è davvero come un campo da arare e su cui seminare.
Note
[1] Si veda a questo proposito i contributi di M. Di Francesco, V. Gallese, R. Manzotti, A. Oliverio, D. Parisi (p. es. in Vita e Pensiero, 2 (2004) e per certi aspetti anche la copiosa bibliografia di E. Boncinelli.
[2] Qui i maestri restano A. Serra e R. Colombo, cui forse recentemente possiamo aggiungere A. Vescovi (quest'ultimo dichiaratamente agnostico, ma non per questo disonesto sul piano intellettuale e scientifico, anzi!).
[3] R .Guardini R., Etica, Morcelliana, Brescia 2001, 216-217.
[4] Cfr. H.U. von Balthasar, Solo l'amore è credibile, Basilea 1963, 34 ss.
[5] E. Boncinelli, Il cervello, la mente e l'anima, Mondadori, Milano 1999.